Massimo Mucchetti: “I politici pensino alle regole, non agli affari”. Un colloquio con Romano Prodi

22 Luglio 2005
Unipol che lancia l’Opa sulla Bnl e taglia la strada al Banco Bilbao. La Popolare Italiana, ex Lodi, che fa altrettanto nell’Antonveneta contro l’olandese Abn Amro. L’immobiliarista Stefano Ricucci che diventa il primo azionista singolo di Rcs Media Group. Il presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo, parla di manovre oscure. Gli esponenti del centrosinistra si dividono tra chi, come Francesco Rutelli, nega alle cooperative il diritto di fare finanza e chi, come Piero Fassino, non vede differenze di dignità imprenditoriale tra immobiliaristi e industriali e benedice l’iniziativa della compagnia di assicurazioni delle coop rosse. C’è abbastanza materia per chiedere a Romano Prodi, leader dell’Unione e candidato alla guida del governo alle elezioni politiche del 2006, dove stia andando il capitalismo italiano e che cosa debba fare la classe politica.

Presidente, queste scalate e controscalate di Borsa la preoccupano?
Sono normali nel capitalismo, dove gli assetti proprietari cambiano di frequente: né stupore né preoccupazione se si rimescolano le gerarchie e i poteri dell’economia. Non deve essere questa la ragione dello scandalo”.

E quale dovrebbe essere la buona ragione?
Questi eventi occupano le prime pagine dei giornali internazionali per il messaggio che danno sulla debolezza delle regole del mercato finanziario italiano: si sono formati blocchi politici in difesa dei contendenti e i regolatori, a cominciare dalla Banca d’Italia, hanno in alcuni casi dato l’impressione di essere non arbitri ma parti in gioco. Non dimentichiamo che in passato il sistema politico italiano è esploso principalmente in conseguenza della contaminazione fra politica e affari. Bisogna fare di tutto perché la tragedia non ricominci. Ed è per questo che ho sempre preferito e preferisco parlare di regole e non di schieramenti, e lavorare su un ruolo più chiaro e incisivo delle autorità di controllo e di sorveglianza.

I volti nuovi vengono dal mattone. Perché?
Il boom dei valori immobiliari e la stagnazione degli investimenti produttivi hanno dato un’importanza senza precedenti alla speculazione. La grande liquidità dei mercati e i conseguenti bassi tassi d’interesse, inoltre, permettono di moltiplicare quasi all’infinito le risorse finanziarie. Parlo della fisiologia: delle patologie se ne dovrebbero occupare le autorità di vigilanza. E la magistratura.

La corsa al mattone è l’ultima tappa della ritirata del capitale finanziario dall’investimento nell’industria esposta alla concorrenza. Caduta del gusto del rischio o effetto di nuove convenienze create dalla politica?
Il capitalismo si ammala se le leggi sono tali da determinare convenienze economiche e fiscali che indirizzano le risorse verso la speculazione e non verso la produzione e l’innovazione. Bisognerà quindi prendere le decisioni atte a riequilibrare queste convenienze...”.

Non crede che la legge sui fondi immobiliari, che consente ai promotori di ricollocare anche il proprio patrimonio presso il pubblico, fornisca una protezione alla speculazione?
Sì. Ma, più in generale, cala anche il gusto del rischio: non certo per la finanza, ma per le difficoltà a fronteggiare la nuova concorrenza, a innovare e, soprattutto, per le ricorrenti crisi delle imprese al passaggio generazionale.

Quando lei presiedeva l’Iri, il capitalismo italiano aveva tre poli: la Fiat di Giovanni Agnelli, la Mediobanca di Enrico Cuccia e le Partecipazioni statali. Abbiamo perso qualcosa?
Sì. Le abbiamo perse tutti e tre. Tardi e male. L’evoluzione di questi tre poli doveva essere avviata prima, non quando la loro forza era stata erosa o indebolita dalla nuova concorrenza internazionale. La politica di un Paese, se vuol vincere, deve giocare d’anticipo. È ora di guardare avanti. Niente nostalgie delle regole che furono.

Alla Banca d’Italia spettano la vigilanza sulla stabilità degli intermediari finanziari e la tutela della concorrenza nel settore bancario.
Ho sentito più volte il precedente presidente dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, affermare che la competenza di Bankitalia su cartelli, intese anticoncorrenziali e abusi di posizione dominante non è appropriata. Condivido, perché tra garanzia della stabilità e garanzia della concorrenza esiste un palese conflitto.

La legge italiana sull’Opa ha lo scopo di rendere più contendibili le società. Funziona?
La nostra è una legge in linea con le altre europee. Ho l’impressione che vi siano invece scollamenti nel modo di procedere dei vari regolatori. Mi auguro, come ha detto il presidente della Consob, che dall’esperienza in corso si possano trarre insegnamenti per il futuro.

Le tensioni nell’azionariato di Rcs Media Group ripropongono la questione della trasparenza degli assetti proprietari dei media. La legge sull’editoria impone di rendere nota la proprietà risalendo fino alle persone fisiche o a eventuali società quotate. Se dunque Ricucci lanciasse un’Opa tutto diventerebbe più chiaro. Ma al momento...”
Già oggi la Consob, se e quando ne avesse la volontà, potrebbe promuovere inchieste approfondite e richieste di chiarimenti anche "a monte", a fronte di dubbi sul finanziamento di posizioni rilevanti in società quotate. A maggior ragione lo ritengo necessario nel caso dei quotidiani. Quando, nel 1963, frequentavo la London School of Economics, nel manuale il capitolo sulle regole antitrust per la stampa si intitolava: "I giornali sono cosa diversa”.

Va difesa l’italianità delle banche?
Rafforzare la propria posizione nel mondo è l’obiettivo della politica economica e, quindi, anche della politica bancaria, di ogni Paese. Il problema sono gli strumenti: quelli possibili e quelli efficaci. Tra i primi dobbiamo escludere tutti quelli che vanno contro gli accordi e i ruoli internazionali dell’Italia. Tra i secondi, mi sembra che debba essere prescelto il rafforzamento dimensionale e organizzativo dei nostri istituti bancari in Italia e fuori: l’acquisizione di Hvb da parte di Unicredito serve molto di più della difesa a oltranza delle nostre banche di fronte agli operatori esteri.

Il governatore Fazio auspica l’intervento di fondi pensione e assicurazioni nel capitale delle banche. Che ne pensa?
Dipende da come si proteggono i risparmiatori. In particolare, le assicurazioni, quando acquisiscono partecipazioni rilevanti in altre imprese, non devono dare nemmeno l’impressione di usare le riserve tecniche.

Si contesta il diritto delle coop di investire nelle banche.
Non vedo alcun fatto giuridico che lo proibisca. È tutto un problema di misura e di convenienza. Convenienza rispetto alla bontà dell’affare. Misura rispetto ai soci.

L’Opa Unipol su Bnl rispetta le due condizioni?
Un uomo politico non può e non deve entrare nel merito di singoli affari, ma solo garantire il rispetto delle regole. Inoltre, attraverso l’impegno di governo, deve lavorare al miglioramento dell’intera economia premiando la produzione contro la rendita.

Come giudica lo stato delle Autorità in Italia?
Sono troppe e hanno sempre meno autorevolezza e indipendenza. Il Paese non se ne preoccupa abbastanza, riflette a sufficienza su quanto stia avvenendo in questo campo. Le Autorità non erano state costituite per riflettere al loro interno il bilanciamento di potere della politica nazionale.

Ma anche il centrosinistra ha partecipato alla spartizione.
Sì. E ha sbagliato.

L’Antitrust deve sorvegliare i conflitti d’interesse dei governanti. Tesauro e l’ex commissario Ue, Mario Monti, erano contrari. L’attuale presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, chiede lumi. Che farà se andrà al governo?
Mi sono sempre schierato con Tesauro e Monti. I fatti dimostrano che avevamo ragione. Se andrò al governo, farò in modo che la ragione prevalga.

Il dibattito sul governo dell’economia oscilla tra il modello Wimbledon (non importa la nazionalità di chi vince il torneo, ma che tutti vengano a Wimbledon a giocare) e il modello francese ispirato a Colbert (lo Stato interviene nell’economia a difesa dell’interesse nazionale). Lei come si colloca?
Poiché esistono diversi modelli di politica industriale, bisogna che la classe dirigente rifletta sulla politica industriale adatta all’Italia, dove non è possibile adottare né il modello Wimbledon né Colbert. Fino a qualche mese fa, era proprio proibito parlare di politica industriale. In pochi lo continuavamo a fare, ma senza ascolto. Adesso, ci arrivano tutti. Finalmente si riflette a partire dalla realtà dei distretti e della media impresa. Ma poi c’è la concorrenza. È economicamente dannoso e politicamente immorale avere la concorrenza in alcuni mercati e in altri no. Questo non lo potremo sopportare.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …