Vivian Lamarque: Grazie alla terapia, nei miei versi ho ritrovato la gioia di vivere
06 Settembre 2005
Ho solo un rimpianto: di avere cominciato l’analisi tardi, a 38 anni. Era il 1984 e già da decenni vivere mi era diventato difficile. Alcuni ‟colleghi poeti” mi suggerivano la terapia di Lacan, altri la psicologia analitica di Jung, nel dubbio le affrontai tutte e due contemporaneamente. Ma bastò il primo colloquio: i generosi 75 minuti concessi dallo psicanalista junghiano contro gli scarsi 20 minuti del lacaniano. Ebbe così inizio il viaggio più lungo della mia vita. E iniziò anche un nuovo libro: ‟Era un signore seduto / di fronte a una signora seduta / di fronte a lui...”. ‟Il signore d’oro”, ‟Il signore degli spaventati”, ‟Poesie dando del lei”, piccola trilogia che ho dedicato al dottor B. M., sono versi d’analisi, d’amore transferale. Che hanno permesso alla mia poesia di uscire dalla ‟stanza”, di essere meno claustrofobica, di riscoprire e rileggere la realtà. L’analisi non mi ha allontanata dalla scrittura né dalla vita. Anzi, ha permesso la stipulazione di un patto d’alleanza tra le due. La prima non dichiara più guerra alla seconda. Posso scrivere e vivere i giorni del dolore e quelli della gioia come tutti quanti. E due sedute settimanali non hanno stravolto il ritmo della mia esistenza, né hanno costituito un problema economico, visto che l’onorario richiesto a un poeta non è lo stesso previsto per un celebre professionista. Ero giunta in analisi fatta solo di carta, di inchiostro, di deliri. ‟La realtà era abdicata / splendidissima regnava la vita immaginata”. ‟Il mio dottore è gentile / ma io vorrei morire”. Non vedevo gli affetti vicini accecata da miraggi lontani. Qualcuno ha scritto che non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice. È vero. L’analisi me l’ha restituita. Dall’Oltretomba sono tornati gli scomparsi, dal sottosuolo i sepolti vivi. Devo ringraziare Jung, ma anche Freud: tutto cominciò da lui. E devo ringraziare anche, se permettete, gli psicofarmaci di nuova generazione. Ero circondata dal buio, l’analisi mi ha acceso la luce; le medicine, quando c’è qualche blackout, mi fanno da candelina.