Massimo Mucchetti: La nuova Bankitalia e i 30 miliardi da (non) distribuire

12 Settembre 2005
La nuova Banca d’Italia auspicata dal governo parte dalla cessione delle quote del suo capitale, ora in portafoglio alle banche, a un compratore pubblico da definire. L’attuale compagine proprietaria è infatti contrassegnata dal conflitto d’interessi delle banche vigilate che posseggono il vigilante. Ma quanto è grave questo conflitto? E quanto è quindi sensato pagare per sanarlo? La privatizzazione delle banche comporta la violazione dell’articolo 3 dello Statuto, che esige una maggioranza comunque pubblica in Banca d’Italia: un imbarazzo tanto più serio quante più banche azioniste passassero in mani estere. Ma il conflitto d’interessi è soltanto formale. Le banche ‟padrone”, infatti, esprimono nelle assemblee delle sedi locali della Banca d’Italia i 13 membri del Consiglio superiore (il quattordicesimo membro è il Governatore, che presiede). Senonché a questo consesso è precluso per legge ogni intervento nelle cinque principali aree d’attività di via Nazionale: la politica monetaria, che è stata messa in comune con le altre banche centrali di Eurolandia, la vigilanza, la circolazione monetaria, il sistema dei pagamenti, la sorveglianza dei mercati. Il conflitto d’interessi implicito nella struttura proprietaria è dunque depotenziato dalla normativa. E la controprova empirica viene dal fatto che oggi la Banca d’Italia è criticata per eccesso di discrezionalità, che è l’elemento costituivo del potere. Se qualche vigilato - non solo Fiorani - ha trovato una sponda nel vigilante, ciò dipende dalle politiche e dai comportamenti della banca centrale più che dall’entità della partecipazione del beneficato. Le quote, d’altra parte, possono essere cedute solo previo consenso del Consiglio superiore e solo a banche o assicurazioni tali per cui non venga meno il controllo pubblico della banca centrale. Poiché banche e assicurazioni sono private, le quote risultano invendibili. Secondo i nuovi principi contabili Ias, le quote dovrebbero essere valutate al fair value, e cioè al valore al quale un bene può essere liberamente comprato e venduto su un mercato che, però, non c’è. Tocca dunque alla Banca d’Italia dare istruzioni alle vigilate su come apprezzare un’attività da ciascuna messa a bilancio a valori diversi. Senza attendere via Nazionale, tuttavia, si può già dire che l’idea di pagare le banche distribuendo loro i 30 miliardi del patrimonio netto della Banca d’Italia appare a dir poco bizzarra. Le banche non hanno avuto meriti nell’accumulazione del patrimonio di un’istituzione che svolge un servizio pubblico. Non a caso anche la remunerazione del capitale è risibile. Nel 2004 è stata pari a 47 milioni di euro, che darebbero un roe (return on equity) dello 0,15%. Com’è già stato calcolato su queste colonne, attribuendo un modesto rischio all’investimento, a un rendimento di tal fatta corrisponderebbe un capitale di 1-1,5 miliardi. Il patrimonio della Banca d’Italia, specialmente se ne venissero riformate le funzioni, potrebbe risultare esuberante rispetto alle necessità e offrire perciò spazio allo Stato per pagare con le risorse di palazzo Koch. Un’idea che Francesco Cossiga, facendo propri pensieri di Pellegrino Capaldo, aveva già prospettato nel novembre 2002. Il bilancio dello Stato, dunque, non corre rischi. Anzi. Ma questa non sarà una buona ragione per dare alle banche più del dovuto. Che è poco. Anche se, nel quadro di un accordo, si dovrà forse trovare una soluzione alle minusvalenze che valutazioni rigorose farebbero emergere nei conti di alcune di loro.
(con la consulenza tecnica di Miraquota)

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …