Giorgio Bocca: Politica, mafia e soldi per tutti

04 Novembre 2005
Continua nell'informazione l'ipocrisia suprema della mafia che c'è, ma non c'è, che coltiva le sue alleanze delittuose con lo Stato legale, ma che però non vanno ufficialmente ammesse, se no, che Stato rispettabile è il nostro?
Vedi Sergio Romano che sul ‟Corriere della Sera” cita il caso di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale della Calabria, ucciso dalla 'ndrangheta e dice che "sarebbe assurdo farne improvvisamente un suo complice e sodale", anche se si è scoperto che aveva frequenti contatti telefonici con un capo mafioso. Assurdo perché? Essere in rapporto continuo e confidenziale con un capo della malavita organizzata non è complicità?
Non lo è dove questa complicità è storica e ormai inevitabile, necessaria, istituzionale come in tutto il Meridione e in molte provincie anche sopra il Volturno. Ha fatto scandalo il nostro ministro ai Lavori Pubblici quando ha dichiarato che la mafia c'è e ci sarà, e che quel che conta è saper convivere con essa. Scandalo soprattutto nella sinistra, anche se in questa complicità ci sta da sempre. Anni fa, a Palmi, intervistai un avvocato di mafia e poi a Palermo gli avvocati di una cooperativa di sinistra. Chiesi perché assistessero clienti mafiosi, in pratica solo clienti mafiosi, e la risposta fu identica: se non loro, chi? Chi se non il mafioso ha il denaro per pagare le parcelle dei difensori? Quelli che non sono inquisiti? Quelli che hanno alti uffici nello Stato e che la magistratura non persegue?
Dalla fondazione dello Stato unitario, nelle grandi regioni meridionali l'ordine sociale, questo tipo di ordine, fu assicurato dalla complicità con la mafia. Il valoroso e ingenuo Giuseppe Garibaldi arrivato vincitore a Napoli fu consigliato da un principe di casa Savoia di mettere a capo della polizia un galantuomo esperto in materia di camorra. Lo era, dato che ne era il comandante. Il fatto è che, dopo l'annessione delle regioni meridionali, lo Stato pensò di tenere l'ordine con i presidi territoriali dei carabinieri, una caserma e cinque carabinieri in ogni paese, in mezzo al mare dei contadini governato dalle cosche mafiose ereditate dal feudo.
E questi carabinieri fecero quello che potevano fare per sopravvivere, stabilirono dei rapporti di convivenza se non di collaborazione con i mafiosi e anche oggi al fondo di tutte le storie di mafia misteriose, dalla cattura di Totò Riina alla latitanza trentennale di ‟zio Binu” Provenzano, c'è questo legame.
Al procuratore antimafia Piero Grasso va il merito di aver una buona volta alzato il velo. È di questi giorni la sua dichiarazione che la latitanza di Provenzano è stata favorita dalla complicità di alti funzionari e di grandi imprenditori. Ho avuto, a partire dagli anni Novanta, le confidenze dei figli dei cavalieri del lavoro di Catania. Erano stanchi, spesso angosciati di essere considerati dei mafiosi di complemento e di doverlo spiegare ai loro figli. Ma l'alternativa quale era a Catania, a Palermo, ad Agrigento? Una sola: chiudere i cantieri.
È questa la ragione per cui, in mezzo allo stupore generale per le rivelazioni del procuratore Grasso, le ritengo credibili e purtroppo inutili perché, come è andato in questi anni, andrà anche in quelli prossimi come conferma la politica delle grandi opere tipo il ponte sullo stretto di Messina e la valanga di miliardi testé concessi a una regione che è un modello dello spreco e del sottosviluppo.
La ragione di fondo per cui chi comanda in Sicilia vuole il silenzio su Provenzano e l'ergastolo per Riina è che oggi ci sono soldi in abbondanza per tutti. Ponti sullo stretto come autostrade e laghi artificiali consentono ai mafiosi e ai loro amici imprenditori un reddito che, sommato a quello della droga, basta e avanza.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …