Luigi Manconi: Periferie italiane. Il Pericolo dietro Casa

07 Novembre 2005
Se l’Italia non corre il rischio che, in tempi brevi, accada quanto sta accadendo in Francia, non è certo merito nostro (e tanto meno di chi ci governa). Non siamo ‟più bravi dei francesi”: anzi, è probabile che lo siamo meno e che, prima o poi, dovremo - amaramente - rendercene conto.
Ben vengano, dunque, le parole di Romano Prodi, che - con linguaggio schietto fino alla brutalità - ha detto: ‟Nelle periferie delle nostre città ci sono condizioni di vita pessime e infelicità anche dove sono tutti italiani”. E poi: ‟Occorre assolutamente mettere mano all’edilizia e ricostruire le reti di protezione sociale: non crediamo di essere così diversi da Parigi, è solo questione di tempo”. Tutto ciò, nei titoli di alcuni giornali, è diventato una sorta di fosca previsione, se non (secondo la destra) di cupa intimidazione: ‟Prodi: in Italia come in Francia”. Le cose sono, in realtà, assai diverse e, tuttavia, le parole di Prodi vanno prese molto sul serio. È vero, innanzitutto, che ‟è solo questione di tempo”: e che se non si adottano adeguate strategie sociali e urbanistiche e conseguenti politiche pubbliche, la possibilità che la tensione si accumuli nelle pieghe oscure delle nostre città e delle periferie delle nostre metropoli, e che possa covare e radicalizzarsi fino a esplodere, è un rischio reale. Ma il fattore-tempo è importante anche per altre ragioni.
Rispetto alla situazione francese, l'immigrazione straniera in Italia è notevolmente recente: i primi flussi risalgono a meno di trent'anni fa e, tuttora, la percentuale di popolazione immigrata è inferiore a quella dei paesi affini (Germania, Inghilterra e, appunto, Francia). La prima conseguenza di una presenza così antica e radicata è che, in quei paesi, vivono stranieri di seconda e terza generazione; e che sono proprio essi i protagonisti della rivolta di queste settimane. Centinaia di migliaia di giovani, nati e cresciuti in Francia, che vivono una condizione di esclusione, dove il dato della discriminazione etnica si sovrappone a quello della marginalità economica e della perifericità sociale (urbanistica e culturale, di consumi e di vita). Si tratta, dunque, in primo luogo di ‟francesi declassati”, ai margini del mercato del lavoro e delle opportunità sociali, e - anch'essi - scissi da una ‟doppia appartenenza”: quella verso i paesi di origine (in particolare, del Maghreb), vissuta come memoria virtuale, senza averne, spesso, esperienza diretta; e quella verso una Francia avara, che ospita senza accogliere, che subisce senza integrare, che accetta senza riconoscere. Per capirci: quando le statistiche ufficiali dicono che appena il 5% dei figli di immigrati riesce ad arrivare all'università, è agevole comprendere che i meccanismi di esclusione rimandano, in primo luogo, a precise condizioni economico-sociali; e quelle stesse condizioni si intrecciano, moltiplicandosi e radicalizzandosi, a quelle legate all'identità etnica.
E l'Italia? L'Italia è un'altra cosa. È (ancora) un'altra cosa. L'immigrazione straniera non si presenta così compatta e omogenea per composizione interna (molto più articolata e distribuita per nazionalità diverse e diversamente consistenti); ed è prevalentemente costituita da immigrati di prima generazione. Questi stanno vivendo una lenta e faticosa, faticosissima integrazione, che ne sollecita la ‟rispettabilità sociale”: e incentiva, pertanto, comportamenti orientati al rispetto delle leggi e delle regole del vivere comune. Basti pensare che, nel corso del 2004, su una popolazione di 2.700.000 stranieri regolari, ne sono stati denunciati o arrestati appena 98 (sì, avete letto bene: novantotto). Altro dato della situazione italiana, che la differenzia da quella francese, è la distribuzione degli immigrati lungo l'intero territorio nazionale; questo determina un allentamento e un'attenuazione della pressione e, di conseguenza, una presenza spesso più significativa nei piccoli e medi centri, piuttosto che nelle grandi città; e anche laddove la percentuale tende a crescere resta, tuttavia, entro dimensioni contenute (è la provincia di Brescia a raggiungere la percentuale più alta con l'8.5% rispetto all'intera popolazione residente). E ancora: la presenza degli immigrati segue, nelle città italiane, linee complesse e differenziate, mobili e flessibili, che finora (fatte salve alcune drammatiche eccezioni) non hanno prodotto una ‟urbanistica razziale”; e (fatte salve alcune drammatiche eccezioni) non hanno generato veri e propri ghetti.
Per ora, in altre parole, le città italiane non hanno seguito uno sviluppo ‟per nicchie”: tanti insediamenti abitativi quante sono le etnie. Il che porterebbe alla formazione di altrettanti ‟mondi chiusi”, fatti di comunità nazionali coesistenti in un medesimo corpo sociale, ma irriducibilmente autonome e non comunicanti. Grazie al cielo, non è così.
E non è nemmeno fatale che così diventi. Anche se - ha ragione Prodi - ‟le nostre periferie sono una tragedia umana”: e lo erano già prima che arrivassero gli immigrati, poveri tra i poveri, infelici tra gli infelici. Lo sono (‟una tragedia umana”), per tante ragioni e, in particolare, perché è fallita la pianificazione urbanistica degli anni '60 e '70: e perché lo sviluppo delle città segue le linee e le fratture delle divisioni di classe e delle discriminazioni sociali ed economiche (e, poi, etniche).
Ma non è una condanna ineluttabile o un destino già scritto.
Moltissimo c'è da fare. Moltissimo si può fare. Finora hanno operato, in particolare, le amministrazioni locali e il volontariato sociale. Spetta alla politica, al governo centrale (al prossimo, immagino, considerata l'inettitudine di quello attuale) e alla sua capacita di elaborare politiche pubbliche di tutela sociale, fare il resto. Nonostante tutto, il tempo c'è, ma - sappiamolo - corre via veloce: molto veloce.

Luigi Manconi

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università IULM di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Tra i suoi libri …