Luigi Manconi, Andrea Boraschi: Aborto, contro la solitudine non servono i "missionari"

21 Novembre 2005
«Trovo scandaloso il medico di famiglia che non si occupa di far prendere alla donna una decisione consapevole, ma lascia il certificato per l´aborto in portineria. Di mezzo c´è la vita di un bambino. Io parlo così: la vita di un bambino». A «parlare così» è Giuliano Amato, tra i primi laici, in Italia, a essersi espresso in termini critici sulle procedure di applicazione della legge 194. «Ma è mai possibile - aggiunge Amato - che non si possa dire che alcuni comportamenti emersi in seguito all'approvazione di una legge giusta sono sbagliati? Oppure dobbiamo sempre dirci: ‟Taci, il nemico ti ascolta”? Come se ogni vicenda della vita fosse un pezzo di guerra civile con i fascisti, da una parte, e gli antifascisti, dall´altra».
È giusto esigere che «le vicende della vita» non siano inquadrate in una logica di perenne conflitto ideologico; ed é altrettanto giusto che, su questioni di natura etica, la discussione pubblica proceda in maniera libera e quanto più aperta. E, allora, muoviamo proprio dai molti riconoscimenti che si possono rivolgere agli argomenti di Amato. La riduzione dell'aborto a pratica contraccettiva è cosa riprovevole: tanto quanto lo è quella figura di medico richiamata in apertura; e tanto quanto lo è la condizione di molte donne lasciate ad abortire in solitudine: a «sbrigare una pratica ospedaliera» più che a decidere della propria e dell'altrui vita. Ma, detto questo, esistono rimedi generali alla «banalizzazione dell'aborto»? Esistono politiche di sostegno alla maternità che possano incidere davvero sulla scelta di una donna?
La risposta alla prima domanda - sia detto senza alcun intento provocatorio - tende a essere negativa, almeno fino a quando la questione è declinata nei termini assunti dal dibattito di questi giorni. Perché la misura di consapevolezza, di riflessione e di dolore con la quale si affronta l'esperienza dell'aborto è irriducibilmente individuale e intima. E, dunque, lo stato non dovrebbe avere alcun titolo a indagarla. Si tratta di un atto di coscienza che, come tale, esprime in sommo grado la libertà dell'individuo, nelle sue motivazioni e pulsioni più nobili come in quelle più egoistiche e regressive; e in tutti i suoi inevitabili limiti e vincoli.
Non crediamo, in altre parole, che possa darsi un intervento «dissuasorio» da parte di medico, assistente sociale, psicologo, all'interno di una struttura pubblica, che non finisca per rifarsi a un contenuto «etico» (il richiamo alla sacralità della vita), estraneo alle regole che dovrebbero guidare la sanità pubblica. Men che meno, pertanto, riteniamo possibile che lo stato promuova l'intervento del volontariato nei consultori quando esso persegua finalità morali anzichè sanitarie. La decisione di aprire i consultori agli operatori del Movimento per la vita, un'associazione che interpreta l'aborto come un crimine contro l'umanità, svela un'impostazione ideologica, che si oppone a quella libertà di scelta e di coscienza, che si dice di non voler contestare; prevede l'istituzione di «presidi di moralità», fondati su una interpretazione confessionale del significato della vita; dichiara apertamente che il fenomeno dell'aborto va affrontato su un piano etico, anziché - prioritariamente - su quello delle politiche sociali.
E, allora, qual è il rischio? È che la donna - se l'assistenza é di ordine esclusivamente morale - rimanga davvero sola. E cosa ne sarebbe, pertanto, di quel passo della legge 194 dove si legge: «Il consultorio e la struttura sociosanitaria hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza, di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre»?
La risposta appare ovvia: lo stato non può rimanere estraneo a una questione tanto delicata. Deve, al contrario, mettere a disposizione risorse e strutture per garantire che l'intervento abortivo rientri nel quadro dell'assistenza pubblica. Ma - è questo il punto - nel dibattito di queste settimane molti vogliono tradurre quella responsabilità pubblica in una sorta di missione morale: la salvaguardia della vita del nascituro. Dunque, le proposte che vengono avanzate per «debellare la piaga dell'aborto», come per osteggiare l'impiego della Ru486, sono tutte essenzialmente d'ispirazione «missionaria». L'aiuto di cui, incredibilmente, quasi nessuno parla - quello fatto di politiche di sostegno alla maternità - invece non c'è e non viene perseguito. Forse perché mancano le risorse per estendere le politiche di welfare a questo settore; forse perché alcuni soggetti della politica e della cultura sono riusciti a dirottare la riflessione su un piano eminentemente etico, polarizzando una questione (il problema della vita e della morte, appunto) che sembra non consentire mediazioni e soluzioni parziali e condivise.
Ne deriva una domanda: è possibile pensare a una politica di prevenzione dell'aborto e di incentivo alla maternità che non sia, necessariamente, di ispirazione confessionale? Si può aiutare una donna che lo chieda, senza mettere in discussione le sue ragioni esistenziali? le uniche titolate a decidere, in ultima istanza, della sorte di un feto? O, più semplicemente, è possibile immaginare dei consultori dove una futura madre possa apprendere che, a fronte di un grave disagio che condizioni la sua scelta, esistono misure previste dallo stato a garanzia della sua persona e di suo figlio? Dove ci si possa informare su forme di sostegno economico e di assistenza sanitaria, su servizi e agevolazioni, su misure fiscali favorevoli e su una estesa rete di diritti e garanzie (ad esempio, rispetto all'attività lavorativa)? Tutto ciò è non solo giusto, ma anche possibile: e politiche di tale natura sono state sperimentate e applicate con successo, anche in Italia. Senza affidarsi al volontariato (risorsa preziosissima, ma destinata ad altri compiti, altrettanto importanti); e senza tirare in ballo categorie etiche che, con la capacità d'intervento pubblico su una simile questione, hanno poco a che fare. E rimandano, con ogni probabilità, a pensieri inconfessabili.
Quali quelli che Claudia Mancina, sul ‟Riformista” del 17 novembre, così riassume: «Forse (…) si vuol dire che lo scandalo dell'aborto deve essere pagato col dolore fisico, l'umiliazione, i disagi della degenza ospedaliera? Che il gesto di rifiutare una gravidanza deve avvenire nel sangue e possibilmente nel pericolo, per essere tollerato?».

Luigi Manconi

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università IULM di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Tra i suoi libri …