Paolo Di Stefano: La leggenda della bibita brutta, cattiva e scorretta

21 Novembre 2005
Coca-Cola, terza puntata. Prima la minaccia di eliminarla dai distributori dell’ateneo di Roma Tre che ha richiesto il pronunciamento solenne del Senato accademico. Poi la protesta contro il tedoforo ‟sponsorizzato” delle Olimpiadi invernali. Infine, la mozione dei consiglieri comunali di Torino per bandirla come marchio ufficiale. Il furore etico italiano sembra da qualche tempo avere un solo obiettivo, quel ‟perfetto distillato del demonio”, come fu definita la Coca-Cola nel 1907 durante un processo voluto da metodisti bacchettoni, che la consideravano deprecabile e immorale. Per fortuna, Furio Colombo, ieri sull’Unità, ha deprecato i deprecatori ‟metodisti” d’oggi. Ricordando che la Coca-Cola ‟è stata la prima azienda ad assumere giovani neri, uomini e donne”. E che quando il numero due di Martin Luther King, Andrew Young, dovette lasciare il suo posto di ambasciatore alle Nazioni Unite perché giudicato filo-palestinese, fu proprio la Coca-Cola ad accoglierlo. Dunque, a Colombo va il merito di fare affiorare un minimo di memoria storica nel fiume delle leggende metropolitane che un Simbolo per eccellenza dell’imperialismo moderno (e postmoderno) ha portato necessariamente con sé. Leggende metropolitane alimentate dal successo planetario delle bollicine di Atlanta sin dal loro primo sfrigolare in un giorno di maggio del 1886. Lo racconta Nicola Lagioia in un bel saggio intitolato Babbo Natale (Fazi). Sì, proprio così: Babbo Natale. Perché la Coca-Cola ha fondato l’immaginario moderno dell’ex San Nicola portatore di doni, quando nel 1931 un suo pubblicitario ebbe la geniale idea di scegliere il vecchio dalla barba bianca come testimonial per i bambini. Un target cui ai tempi era proibito fare esplicito riferimento nelle pubblicità, per una bevanda che conteneva qualche grammo di caffeina. Fu l’inizio di una irresistibile ascesa (sia per la Coca-Cola, sia per l’uomo in slitta). E sarà epica. Epica vera e propria. Con tutto l’amore, ma anche l’avversione, che gli eroi-simbolo si trascinano dietro. Il destino economico della Coca-Cola lo si conosce e c’è poco da aggiungere. Se non che il tutto fu conquistato anche grazie alle rivoluzionarie capacità camaleontiche del suo marketing ante litteram. Capace di rappresentare (anzi di identificarsi con) l’America a tal punto da diventare liquida incarnazione del male per i giovani che si opponevano alla guerra del Vietnam. Ma intanto, nei primi anni 70, facendosi interprete del ‟grande sogno di cambiamento” cullato da quegli stessi movimenti, allorché impose una giovanilistica pubblicità multirazziale ambientata sulla sommità di una collina toscana: ‟Quello che il mondo vuole oggi è Coca-Cola / È la cosa vera”. Più o meno, negli anni in cui il cantastorie Franco Trincale, in Italia, cantava: ‟Per ogni Coca-Cola che tu bevi, un proiettile all’America hai pagato”. Mimetica a tal punto da rifornire di migliaia di casse le truppe del generale Patton, e intanto ‟arianizzarsi” ad uso del Reich, inserendo la svastica sulla sua etichetta rossa (anche se poi Goering capì il gioco e le oppose la ‟bionda” Fanta). Multinazionale. Multiideologica. Fu democristiana e antidemocristiana, come qualche giorno fa ha ricordato su Repubblica Filippo Ceccarelli. Oggi, berlusconiana e veltroniana. ‟La storia della Coca-Cola maledetta - scrive sempre Furio Colombo - nasce in Medio Oriente, fa parte del boicottaggio arabo di Israele di cui ci siamo tutti dimenticati”. Sarà proprio così? E se anche così fosse, sarebbe lecito pensare che i ‟metodisti” italiani d’oggi riconducano il loro boicottaggio alla Guerra dei Sei Giorni? Forse a questo punto è meglio che anche la memoria di Furio Colombo non vada oltre. Potrebbe venire inghiottita dal camaleonte.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …