Paolo Di Stefano: “Non si fa la storia rimanendo dietro una scrivania”. Colloquio con Erri De Luca

01 Dicembre 2005
Militanza? ‟Eh, non esageriamo, non usiamo parole grosse”. Neanche sulla bocca di Erri De Luca, di uno scrittore cioè che ha attraversato i ‟fuochi” degli anni 60 e 70, questa negazione fa più molto effetto. ‟Militanza è una parola legata alla necessità di una battaglia e in letteratura non c’è l’esigenza di usare questo termine. Oggi possiamo solo testimoniare”. Testimoniare che cosa? ‟Ci sono temi che mi coinvolgono come persona civile: sono emotivamente coinvolto dalla libera circolazione della parola guerra, una volta maledetta dalla Costituzione italiana. Ormai è diventata una voce del bilancio italiano e una forma di esportazione del nostro prodotto all’estero. Ecco, vorrei che tornasse a essere maledetta”. E che cos’altro vorrebbe testimoniare? ‟I campi di concentramento per stranieri che chiamiamo, con espressione delicata, centri di permanenza temporanea per non offendere le nostre orecchie. In realtà sono luoghi dell’infamia che continuiamo a piantare nel nostro territorio: stanno addirittura al di sotto del pianoterra della detenzione carceraria. Come persona al corrente dei fatti, testimonio la degradazione del nostro Paese ad aguzzino di stranieri innocenti”. Se questa non è militanza, almeno si può dire che si tratta dell’ultima forma di impegno? ‟Io non sono una persona impegnata, sono uno che nel corso della sua esistenza ha preso degli impegni, meglio: è stato aggredito da impegni che non poteva evitare di assumersi”. Che tipo di impegni, lo sappiamo: la partecipazione al servizio d’ordine di Lotta continua, per esempio, poi il lavoro come operaio nelle grandi fabbriche del Nord Europa, poi in Bosnia... ‟Io appartengo a una generazione di coetanei che sono insorti e che hanno costituito, in Italia, la più forte sinistra rivoluzionaria. Se non avessi partecipato sarei stato un disertore. Poi sono stato in Bosnia durante la guerra, come autista di convogli di aiuti. Oggi ci sono altre rogne: cause di forza maggiore che ti saltano sulla groppa e ti costringono a rispondere. Ben sapendo che le buone cause sono sempre superiori alle forze di chi le deve sostenere: Mosè era balbuziente”. Ancora oggi, De Luca si muove per protestare? Non ne ha abbastanza? ‟In gioventù ho passato troppo tempo in testa con le schiere serrate alle mie spalle. Adesso mi accodo volentieri”. Nostalgia per i tempi in cui la lotta era lotta? ‟Ho un difetto di fabbrica, sono privo di questo sentimento che si chiama nostalgia. Non vorrei tornare in nessuna stazione del mio tempo passato, nemmeno tra le braccia che ho abbracciato”. Rispondere, d’accordo: protestando, denunciando, lavorando e viaggiando per aiutare. Ma il rapporto con la scrittura? ‟L’engagement per me è qualcosa di concreto, non ha niente a che fare con la scrivania e con la penna, a meno che la parola non venga confiscata da un regime e allora qualunque parola diventa un impegno, la negazione del silenzio”. Per esempio? ‟Certi poeti: il turco Nazim Hikmet, che dovette subire il carcere per essersi opposto al regime di Ataturk. E poi al poeta di Sarajevo Izet Sarajlic, testimone della tragedia bosniaca. Tra quelli del passato, penso a Mandel’stam e Majakovskij. I grandi poeti sono come una casta sacerdotale. La loro opera è costretta a obbedire alla temperatura morale della loro vita. I narratori sono più frivoli. Ma a parte casi eccezionali, la scrivania non è mai una trincea”. Anche il nostro Primo Levi fu travolto dall’infamia più colossale della storia... ‟Levi ne ha riportato la testimonianza. È stato un testimone di quella circostanza abissale ma niente di più, l’impegno è un’altra cosa”. Non è impegno nemmeno quello di intellettuali che lavorando hanno fatto valere un proprio punto di vista culturale? Come è successo con Vittorini? ‟Di Vittorini non me ne intendo”. E di Pasolini? ‟Era uno che partecipava alle nostre manifestazioni e si metteva a rischio con il suo coraggio fisico. Impegno è condividere fisicamente un qualche accidente della storia non con la penna ma dal pianoterra. Pasolini partecipava perché voleva capire. Diede il suo nome a Lotta continua come direttore responsabile del giornale. Lo fecero anche Pio Baldelli, Pannella, Mughini...”. Anche il nome di Sciascia, in altro senso, viene associato a un’idea di impegno nella vita culturale e politica italiana di quegli anni: ‟Lo escludo. Non si impegnò mai, salvo quando ebbe la malaugurata idea di diventare deputato. Ma se ne pentì rapidamente. Sciascia non condivise fisicamente un bel niente”. Piuttosto: ‟Adriano Sofri finché non gli è stato impedito... È andato in Bosnia e in Cecenia. E Toni Negri, che continua a rivestire quel ruolo di intellettuale impegnato, condividendo materialmente le battaglie”. Ma se l’impegno, per De Luca, è tutto, o quasi, fuori dai libri e oltre la scrivania, che cosa resta della letteratura? ‟La mia narrativa racconta storie senza voler dimostrare niente, anche se vi si trovano mischiati le ragioni e i torti che appartengono alla materia grezza della vita. Però le mie storie non sono un prolungamento dei miei vari impegni. Sono un’altra cosa, sono storie che mi sono capitate”. Deresponsabilizzazione? ‟Ma no, la vita e le storie della vita sono più grandi delle ragioni che noi vogliamo sostenere, sono un campo più vasto. Appioppargli un’appartenenza sarebbe un ingombro. E poi la storia maggiore entra sempre con prepotenza nelle storie minori che si raccontano. Il racconto per me fa da contrappeso alla storia maggiore. Preferisco scrivere storie minori in cui lo schiacciasassi del Novecento è un rumore di fondo. E se vuole, mi prendo questa definizione di essere uno scrittore deresponsabilizzato, anche se la guerra nei miei racconti c’è sempre”. Il penultimo esempio è Morso di luna nuova, che ricorda i bombardamenti di Napoli nel ‘43. L’ultimo è Solo andata, che evoca, in versi, il viaggio di un gruppo di migratori dall’Africa verso i porti del Nord. ‟Ma nel calderone della storia mi interessano le scintille delle vite personali, non la coralità ma l’avventura del singolo. La coralità si incontra nei racconti di alamov: lì sì che c’è un’esperienza corale, di un coro più grande di quello di Solgenitsyn dai campi di concentramento della Russia sovietica. I miei libri non vogliono dimostrare niente...”. Dunque, date queste premesse, non chiedetegli se esiste oggi una critica militante. Per De Luca esistono i critici bravi e quelli cattivi. Non chiedetegli quali sono i cattivi. Tra i buoni critici, mette al primo posto Giuseppe Bonura, ‟arbiter elegantiae della scrittura letteraria d’oggi”. ‟Però - continua - lasciamo stare la critica militante: parlare di militanza in letteratura è usare una terminologia da combattimento che è fuori luogo”. E parlarne in ambito politico? ‟È una cosa d’altri tempi. Una volta la politica invadeva tutti gli altri campi, entrava anche nelle dichiarazioni d’amore...”. Oggi? ‟Oggi la politica è il disbrigo delle pratiche correnti con al vertice le preoccupazioni economiche. La politica è diventata una branca minore dell’economia”. Anche in Italia? ‟La politica italiana non mi riguarda. Una volta l’Italia era la nazione di confine tra Occidente e Oriente, aveva il più grande partito comunista e rivoluzionario, era una zona nevralgica del mondo, stava in mezzo al Mediterraneo, da noi una volta all’anno venivano i segretari di Stato americani, oggi è un Paese insignificante. È più nevralgica la Turchia e noi siamo stati assorbiti dentro la pancetta dell’Occidente”.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …