Beppe Sebaste: Abitare a Tor Fiscale. Il mistero e l’orgoglio

27 Dicembre 2005
Per uno come me che nasce in Emilia, e che della periferia ha un’idea residenziale (villette geometrili, baretti coi tavolini e pizzeria napoletana), oppure texana (la via Emilia che si densifica ogni tanto in città, costellata di benzinai, discoteche e case rurali crollanti all’orizzonte), esplorare le periferie romane è un rompicapo affascinante. C’è un costante divenire città della periferia, e forse viceversa. Dove comincia una periferia? Preso atto della scomparsa di quei campi spelacchiati che rendevano lirica come un’aureola la cresta dei palazzoni speculativi nelle fotografie di Pasolini, ‟periferia” potrebbe iniziare per me già dal punto di partenza del viaggio con Laura Palmieri verso Tor Fiscale: San Giovanni, la Tuscolana, l’Appia.
Tor Fiscale ha l’aria felice di un borgo, e le sue casette somigliano a quelle dei quartieri valorizzati dalle agenzie immobiliari. I muri dell’Acquedotto, oltre all’opus certum e incertum dei mattoni rossastri, recano tracce delle tettoie di eternit dei primi abitatori, sfollati da San Lorenzo dopo i bombardamenti o dalle campagne. Spero che nessun restauro possa mai togliere quei segni del tempo vissuto, e quindi già storico. All’orizzonte, pini marittimi e un senso antico di campagna. Ma Tor Fiscale è anche un simulacro degradato, certe case sfasciate sono lugubri come i cani che le sorvegliano, e vi aleggia un senso di precarietà che è qualcosa di più dell’assenza di un piano urbanistico. Qui, come vedremo, si riassume il mistero dell’abitare. La vergogna, ma anche l’orgoglio.
L’unico bar (il barista dice di essere lì dal 1953), è in una casa terra-tetto in travertino con l’insegna gialla e tonda del telefono di una volta, coi cerchietti bianchi: ‟Interurbano automatico”. Il barista parla con riluttanza: dice che non ci sono più negozi, non c’è più nessuno; che incendiano le macchine, e ci sono le puttane. Ha una giacca chiara a righine, dietro di lui c’è una parete di amari e liquori antichi come lo stemma del Vov appeso al muro. Poi andiamo dal prete, don Vincenzo, che abita di fianco alla chiesa in un giardino ben curato. La chiesa è intitolata a Santo Stefano Protomartire, il primo ucciso a sassate, precisa il prete. Parla anche lui di spopolamento, però è strano, parla anche di sovraffollamento: ‟in una casetta dove stava una vecchietta, ora ci stanno quindici rumeni”. Gli chiedo se vada nelle case a fare le benedizioni. Il fatto è che gli anziani alle cinque del pomeriggio sono già a letto, dice; gli altri di giorno non ci stanno, anche le donne vanno tutte a servizio. All’asilo ci sono al massimo sette bambini della stessa età. Vent’anni fa c’erano 4.500 abitanti, oggi circa 800. Erano tutti italiani, dice, anche gli zingari. Sono andati per la maggior parte a Ostia e a Torbellamonaca. Le famiglie, invece, al Laurentino 38 o al Tiburtino Terzo. Nelle case fatte per loro, quelle che chiamiamo appunto ‟periferie”. Una volta c’erano negozi: quello di frutta e verdura, la macelleria, il forno, una merceria, un paio di alimentari. C’è ancora (ma era chiuso) un circolo dove si gioca a carte. Mentre lo cerchiamo incontriamo Nadia, in compagnia di un assistente sociale. È con lei che abbiamo appuntamento, ci invita ad aspettarla a casa. Al suo nome, il prete aveva fatto un’espressione stupita: ‟se c’è con la testa”, ha detto. La casa è lungo il viottolo, circondata d’erba e alberi, però aspettiamo in macchina: Laura ha paura di tutti quei cani che ci gironzolano intorno. Intanto piove.
Già, destino ha voluto che ogni volta che siamo venuti qui piovesse come in un film di Tarkowski. Ci sono stati giorni di quella miracolosa luce romana, e una volta ero tra la Tiburtina e la Casilina e guardavo dal finestrino come fosse lo schermo di un cinema e dovessi trarre dal film chissà quale morale. Era bello, semplicemente. Ma quando venivamo qui pioveva, questo è un fatto. Il verde del parco dell’Acquedotto Felice brilla come un campo da golf, senza contare il vero campo da golf dall’altra parte dell’Appia. Inoltrandoci nella stradina di Tor Fiscale, tra case e baracche restaurate - anche quella che fu di madre Teresa di Calcutta - costeggiando gli archi dell’antico Acquedotto, sui cui mattoni vetusti sono ancora attaccate pareti di maioliche bianche e blu, da bagno e cucina (reperti di case fantasma), dopo l’ultima curva ci era sembrato di vedere un lago argentato e mosso. Era la superficie scintillante dei tetti di centinaia di Volkswagen addossate le une alle altre, quelle dell’autosalone chiamato, chissà perché, ‟Balduina”. Sullo sfondo, una campagna che sarebbe piaciuta a Corot, o a uno dei pittori tedeschi dell’Italianische Reise. Laura prende foto, so che le lavorerà come suo solito ‟svuotandole”, facendo emergere l’invisibile dietro il visibile: Mind the Gap, dice. Penso che Laura sia tra i pochissimi artisti a non avere a che fare col lutto e la nostalgia inerenti a ogni ‟rappresentazione”: nelle sue immagini c’è qualcosa che appare e qualcosa che scompare. Tutto qui. Quanto al suo amore per la periferia, prima che diventasse di moda, Laura realizzò su Corviale un lavoro che invitava a imparare dagli abitanti, non giudicare a distanza e a tavolino.
Adesso siamo seduti al freddo sotto il portico di Nadia, circondato di archi. L’ha costruito lei, e ‟si vede”, ride, ‟sono tutti storti”. Intorno beccheggia la pioggia sugli oggetti ammassati come in un rottamaio. Nadia ha quasi sessant’anni, è avvolta in uno scialle e sembra una pellerossa. Ci racconta le lotte per gli allacci alla rete fognaria, tra l’86 e il ’90. Nonostante l’obbligo di legge, non volevano collegarla alle baracche. Nadia balbetta, e per un po’ parliamo di questo - il primo piano cui la balbuzie costringe l’interlocutore, l’insegnamento della lentezza e della pazienza. ‟Siccome balbettavo, credevano che fossi una cretina”, dice a proposito delle sue battaglie contro la burocrazia. Anni fa Nadia era la signora del palcoscenico dell’Ambra Jovinelli: ballava, cantava, recitava, faceva lo spoglierello, ma scaricava anche casse, aggiunge, e spingeva camion nella neve durante le tournées. Fu modella per il pittore Turcato: ma che bisogno ne aveva se era un astrattista?, ride Nadia. Nadia venne ad abitare a Tor Fiscale nel novembre 1962. Ogni arco dell’acquedotto corrispondeva a una famiglia. Alla domenica venivano i signorotti dei dintorni. Ricorda la scoperta, a dodici anni, delle prostitute del Mandrione, e l’epoca dell’occupazione delle case al Celio, poi abbattute. Ricorda la felicità della madre di avere una casa sua, indipendente. L’aveva acquistata vendendo un terreno di famiglia. Era una baracca pericolante e durante i lavori di ristrutturazione Nadia fu aiutata dalle suore di madre Teresa di Calcutta, verso le quali prova molta gratitudine. ‟Madre Teresa venne ad abitare qui perché qui c’erano i più poveri dei poveri”. Conobbe Pasolini, e ha un rapporto di amicizia col fotografo Nino Pedriali, di cui conserva delle foto. Quando fecero il parco dell’acquedotto e dovevano tutti sloggiare e ‟andare ai ponti” (il Laurentino 38), lei ci provò, col figlio di sei anni, che subito scoppiò a piangere. Non ci voleva stare. Per questa casa a Tor Fiscale ha pagato la sanatoria, ma c’è una sentenza di demolizione. ‟Ci provassero!”, esclama. ‟Questa casa non la cambierei nemmeno coi Parioli”. Lo spartiacque della storia di Nadia è la morte della madre, e da lì tutto il dolore che straripando le ha inondato la vita. La solitudine, la povertà, la minaccia di toglierle l’affidamento dei figli. Finché dieci anni fa ha incontrato l’eroina. È la parte più perturbante del suo racconto: la rivendicazione di questo incontro tardivo, addirittura la gratitudine per qualcosa che le ha lenito il dolore e le ha permesso di vivere. Dopo questa prima visita a Tor Fiscale, l’impressione fu di un’assenza di futuro per questo luogo, e pensai alla frase di Cézanne: ‟dobbiamo fare presto, perché tutto sta scomparendo”.
Ci siamo tornati con Paolo, studente-lavoratore in un scuola serale per geometri. Vive al Quadraro, e da bambino si inoltrava in bicicletta sui prati dell’Acquedotto. Di Tor Fiscale ricorda la grotta dei cento scalini, un lungo cunicolo in cui non ha mai osato arrivare in fondo. Paolo ricorda un campo di calcetto, e per cercarlo prendiamo un viottolo che l’altra volta abbiamo ignorato. Il circolo sportivo ‟La Torre” è una vera sorpresa: prati curati, spazi per bambini, campi da gioco, piscina, un bar col portico, ecc. Antonella è la giovane signora che lo gestisce. Lo fondò suo padre nel 1982, con una scommessa audace: farlo tanto più lussuoso quanto maggiore era il degrado del luogo. Di fatto, esprime un amore incondizionato per questo luogo, Tor Fiscale. Ha fatto più lavoro lei nel sociale del prete o degli organismi addetti: ha ospitato famiglie di baraccati e bambini, cede campi di calcetto agli zingari sapendo benissimo che è solo per farsi la doccia, pulisce anche sotto gli archi dell’Acquedotto. Sulla tossicodipendenza dilagante ha idee che ricordano la ‟politica della bellezza” di James Hillman (‟è un problema di dipendenza, allora rendiamoli dipendenti fin da bambini, ma al bello, alla cura, ai valori”). Il suo entusiasmo è contagioso. Tor Fiscale è il contrario delle banlieues parigine. Qui i pochi rimasti vorrebbero continuare ad abitare, non fuggire per trovare di meglio. Qui hanno costruito, nei modi poveri in cui hanno potuto, non distrutto. Non si sogna una vita borghese fatta di comfort e status symbol, e forse anche l’uso di droghe ha una tonalità diversa. Se nelle banlieue ci si rivolta contro la propria differenza, e si dirige la rabbia contro le proprie case, cose e automobili, contro il proprio McDonald, qui, dove non c’è ombra di McDonald, ci si rifiuta di cambiare, non di restare. Quello che resta è quello che resiste. Ma non si vuole morire su una barricata, come i rivoluzionari di un tempo, perché qui sulle barricate si è capaci di viverci. E sopravvive una verità in via di estinzione come le case, una verità piena di buchi e di bugie, una verità forse da tossici, pronta a slittare dalle lacrime al riso all’ingordigia, una verità golosa, irresponsabile, alla giornata, perfino allegra, ma irriducibile. Come la ‟disperata vitalità” del poeta che qui veniva spesso, ‟come un pazzo”, scrisse, o ‟un cane senza padrone”.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …