Renato Barilli: Rotella, il vendicatore dell’uomo della strada

10 Gennaio 2006
Appena due giorni fa, nel mio consueto articolo domenicale, invitavo caldamente il pubblico milanese a recarsi a rendere omaggio a Mimmo Rotella per una intensa manifestazione del suo miglior ritrovato, la pratica del décollage, visibile in una rassegna alle Stelline di Milano. La mostra documenta altre tre fraterne presenze che hanno accompagnato negli anni il nostro Mimmo in quell’esercizio, due già a lui premorti, François Dufrêne e Raymond Hains, quest’ultimo appena pochi mesi fa. Il mio voleva essere un fervido augurio per il decano del gruppo, appunto il nostro Mimmo, coi suoi ottantott’anni quasi compiuti, affinché godesse ancora di una lunga attività, nonostante le voci di una malattia al pancreas che ne stava intaccando la forte fibra, ma evidentemente contro le leggi di natura non si può andare. I tre, così, si stringono nell’aldilà a fianco della loro guida spirituale, il critico francese, ma con frequenti residenze in Italia, Pierre Restany.
Mimmo era nato nel lontano 1918 a Catanzaro, la città alta e ventosa sullo Jonio, da cui aveva tratto un temperamento sobrio, roccioso, di poche parole, senza mai rinnegare un contatto con la terra d’origine, tanto da istituirvi, in questi anni di successo crescente, una propria Fondazione, seppur con forte radicamento nella città adottiva, Milano, che è anche la sede operativa della Fondazione, sotto la guida sapiente di Piero Mascitti, e dove Germano Celant sta procedendo all’edizione di un catalogo completo dell’opera.
E dunque, Rotella conosce, circa mezzo secolo fa, il destino di tanti figli del Sud che li obbliga all’emigrazione, seppure, nel suo caso, di specie culturale. Lo attira inevitabilmente Roma, dove si reca per cercare il verbo, la possibilità di inserirsi nell’attualità più viva, ma l’astrazione di specie informale che allora domina la scena lo delude fortemente. In quel momento egli è tra i primissimi nel nostro Paese a concepire quella che si dirà, quasi un ventennio dopo, la «morte dell’arte». Non bisogna attribuire alcun tratto catastrofico, in una definizione del genere, il che sarebbe profondamente alieno al carattere del Nostro, pieno di spontaneo buon senso, radicato nel culto della vita e sicuro che il fare arte sia un esercizio di intensa illuminazione. Infatti lui stesso ci ha detto di un’improvvisa illuminazione mentre, per le vie di Roma, cerca la giusta ricetta per dipingere. Ma se fosse l’ora di smettere di dipingere, di comprendere che di immagini ne esistono già troppe, attorno a noi? Vi provvede l’onnipotente industria culturale, che già allora produce una fitta coltre di manifesti, del cinema, della pubblicità in genere, a coprire i muri delle città. Che senso ha andare oltre quella loro invadente presenza? Bisognerà anzi imparare a convivere con essi, accettarli come un oceano che ci ingoia. Insomma, è ormai la civiltà industriale che produce quasi al posto della natura, l’artista non si può sostituire a questo processo, ha semmai il compito di abituarci a vivere in un universo in apparenza così asfittico. La natura sembra essersi ritirata, ma non del tutto, dato che non manca di abbattersi su quello spesso strato di immagini conformi infliggendogli maculature, abrasioni, lacerazioni. L’artista deve divenire il complice di quell’intervento liberatorio, indicarlo ai distratti concittadini, selezionandone i frutti migliori. In fondo, nulla di nuovo sotto il sole, già Leonardo da Vinci si diceva affascinato dalle macchie che l’umidità fa fiorire sugli intonaci.
Ecco insomma il décollage, cui Mimmo giunge in piena solitudine, ma poi scoprendo che altri, in Francia, sono avviati lungo la medesima strada, e allora, perché non unire le forze? Un miracolo nella poetica del décollage sta proprio nel fatto che i suoi quattro comuni cultori (oltre a Mimmo, Dufrêne e Hains c’è anche Villeglé) non sono mai giunti a detestarsi tra loro, a sviluppare velenose polemiche sui rispettivi diritti di precedenza. Ma certo la devozione con cui Rotella ha coltivato questa poetica è stata infinita, rinnovata con continue sottili varianti, pur all’interno di una strategia unitaria. All’inizio, come gli altri, egli ha «lasciato fare» al caso, aiutandolo a frammentare il più possibile l’epidermide delle affiches; ma poi, quando è stata l’ora della Pop Art, egli ne ha raccolto la sfida, e ha permesso che le immagini, delle dive del cinema, di Marilyn tra tutte, si ricomponessero, si rifacessero distinguibili, senza mai evitare però che una crepa minacciosa venisse a incrinarle. Poi, attorno al ’68, quando tanti altri sono giunti a coltivare la «morte dell’arte», egli ha deciso che era l’ora di azzerare quel gioco fin troppo animato di frammentazioni, e si è comportato come i suoi ispiratori di base, gli attacchini, i quali, periodicamente, ricoprono le precedenti marezzature di manifesti strappati con un foglio bianco. Ecco così i blanks, cioè appunto un candido lenzuolo che cala sul panorama di scrostature, non evitando però di lasciar filtrare qualche ombra delle icone sepolte. Comunque, con ciò si apriva la possibilità di una fase ulteriore, magari da condurre in accordo con quanto andava facendo un’ondata di artisti più giovani di lui, i brillantissimi graffitisti newyorkesi. Su quel blank, su quel lenzuolo azzerante era lecito riprendere a dipingere, a deporvi segni, ma sempre nel culto, e nel riscatto, della più completa anonimia, nell’esaltazione dell’«uomo della strada» e dei suoi valori, di cui Rotella è stato, per mezzo secolo, l’intrepido vendicatore.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …

La cattura

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