Stefano Rodotà: La politica chiusa nei vecchi riti

15 Gennaio 2007
Sempre più spesso, seguendo le cronache politiche, si rafforza la sensazione di trovarsi di fronte ad un’oligarchia chiusa nei propri riti; drogata da un compulsivo bisogno d’apparire in ogni luogo e in ogni momento, non per comunicare qualcosa, ma per essere rassicurata intorno alla propria esistenza; prigioniera d’una coazione a ripetere che spinge a ripercorrere sentieri che da tempo dovevano essere abbandonati. E infatti: di nuovo il ricorso ai referendum come via alla riforma elettorale, con un ritorno agli inizi degli anni Novanta; di nuovo l’invocazione di riforme da affidare a organismi fuori dal Parlamento, con un ritorno agli anni Ottanta, alla perversa logica delle commissioni bicamerali, di cui fin dall’inizio erano stati segnalati i rischi. Di nuovo i vertici di maggioranza e governo, con un ritorno ad un rito classico della Prima Repubblica (dove, tuttavia, mantenevano una loro funzionalità), di cui volenterosi politologi avevano certificato la scomparsa con l’avvento salvifico del bipolarismo; di nuovo l’invocazione del "sindaco d’Italia" come via regia alle riforme istituzionali, con un ritorno a una dozzina d’anni fa e avendo già dimenticato che nel giugno scorso un voto popolare ha respinto proprio questa ipotesi; di nuovo le furbizie sulla "cabina di regia", con un ritorno alla mossa con la quale Gianfranco Fini aveva pensato di aver "ingabbiato" Giulio Tremonti. Un ceto politico prigioniero del passato può progettare il futuro?
Tutto questo avviene in una dimensione ormai surreale, in un tempo senza tempo, dove si schivano le questioni dell’oggi e si discute intensamente su quali dovranno essere nel 2011 i candidati alla guida del Governo. Si mettono in cantiere manifesti per il futuro e non si riesce a proporre una analisi politica plausibile e coerente di temi che sono davanti agli occhi di tutti. Si opera non con la giusta tecnica della selezione, ma con quella del "ritaglio", escludendo tutto ciò che si teme possa determinare divisioni, far sorgere problemi. Si pensa che nuovi partiti possano nascere senza un chiarimento preventivo proprio sui temi più qualificanti, e per ciò difficili, e non ci si rende conto che così si costruisce una incubatrice di prossimi conflitti che finiranno con il travolgere la nuova creatura.
Anche la riflessione politico-istituzionale sembra essersi arrestata. Giustamente ci si preoccupa di porre rimedio ai guasti dell’ultima riforma elettorale. Ma questo non basta, vi sono altre domande alle quali bisogna rispondere. È vero, la legge elettorale è una "porcata", ha espropriato i cittadini della possibilità di scegliere i loro rappresentanti, ha messo nelle mani di ristrettissime oligarchie partitiche il potere di disegnare le nuove Camere a loro piacimento. A questo punto, però, è lecito un dubbio: perché i partiti hanno utilizzato quel potere per una selezione a rovescio, invece di cogliere in una situazione per sé sciagurata l’opportunità per un vero rinnovamento del personale parlamentare?
Si invoca il dialogo, la fine del muro contro muro tra maggioranza e opposizione. Ottimi propositi. Ma se non vogliamo che tutto si risolva in un ingannevole affidarsi alle buone volontà individuali, bisognerà pure riflettere sulle condizioni istituzionali e sulla cultura che hanno portato a questa situazione, senza ripetere soltanto che va salvaguardato il bene del bipolarismo. Non voglio insistere su un dato più direttamente politico, che un giorno o l’altro bisognerà pure approfondire e che riguarda lo scarto tra la giusta denuncia dei guasti enormi del quinquennio berlusconiano e l’assenza di qualsiasi attenzione per le condizioni istituzionali che hanno reso possibile il disastro (si teme che questo avvii un ripensamento critico del bipolarismo all’italiana?). Ma almeno si torni a discutere del fatto che, calata in un sistema organizzato su altre basi, la logica bipolare ne ha sconvolto gli equilibri, ha fatto venir meno garanzie, pesi e contrappesi che è urgente ripristinare, con una nuova concezione del parlamento e di una partecipazione dei cittadini non rattrappita in una idea del voto finalizzato solo ad "investire il Governo". Non dimentichiamo che molti guasti di oggi hanno le loro radici in una cultura sbrigativa che esaltava il passaggio ad un sistema nel quale finalmente la maggioranza avrebbe incarnato fino in fondo un "governo che governi", con l’opposizione in attesa della prova di appello che sarebbe venuta con le elezioni successive. Si identificava così la possibilità di governare con un "decisionismo" insofferente dei controlli e quindi destinato a provocare continui conflitti, all’insegna del non disturbare il manovratore, dello slogan "10, 100, 1000 decreti legge, 10, 100, mille voti di fiducia", che compendiava lo spirito istituzionale del craxismo e apriva la strada all’identificazione tra modo di gestire l’impresa e di governare lo Stato.
Una rinnovata discussione istituzionale deve anche andare oltre la considerazione del funzionamento della macchina dello Stato. Per capire quale sia lo stato effettivo della democrazia, è indispensabile discutere nel loro insieme gli effetti delle tecnologie sull’organizzazione sociale e il modo in cui si vuole regolare la vita delle persone utilizzando come spunto o pretesto le questioni "eticamente sensibili" (due temi di cui converrà parlare più specificamente). Ma bisogna subito segnalare alcune novità importanti in materia di diritti, che incontrano direttamente proprio quella dimensione dell’economia ritenuta centrale per l’azione di Governo.
Molti dati diffusi in queste settimane hanno confermato in modo drammatico e allarmante le difficoltà per troppe persone del vivere giorno per giorno, la crescita delle disuguaglianze, con indicatori emblematici come il rapporto da 1 a 400 delle retribuzioni dei lavoratori rispetto a quelle dei manager, rapporto che in anni non lontani era di 1 a 20. Sono possibili risposte sul terreno dei diritti sociali?
Una lettura superficiale ha spinto molti a negare che quelli sociali fossero veri diritti perché la loro attuazione dipende da scelte politiche, non dalla possibilità di farli valere direttamente anche davanti a un giudice. Una smentita a questa tesi viene da Francia e Spagna. Il governo francese, di destra, ha annunciato un disegno di legge che fa diventare "esigibile" il diritto all’abitazione: in sostanza, i senza casa potranno rivolgersi al giudice per ottenerla, cominciando da chi vive per strada, dai lavoratori poveri, dalle donne sole con bambini. È vero che saranno necessari chiarimenti e precisazioni, ma il passo è stato fatto e il tema sta lì, non più eludibile dalla politica. Più concretamente, il terribile Zapatero ha proposto e fatto approvare a grandissima maggioranza una Ley de dependencia, che prevede il diritto a ricevere prestazioni per tutti coloro che si trovano in uno stato psico-fisico che li rende "dipendenti" da altre persone nella loro vita quotidiana. Così la misura umana ricompare nella politica, dalla quale l’aveva esclusa un riferimento forzato alle compatibilità economiche.
Se vuole uscire dalla sua desolante autoreferenzialità, e pensare i propri rapporti con la società non solo in termini di "comunicazione" (quasi sempre con esiti disastrosi o con spinte verso populismo e demagogia), il mondo della politica deve ripartire dalla costruzione di una agenda politica non reticente (nella quale le assenze spesso sono più clamorose delle presenze), misurata sulle esigenze effettive di un sistema politico democratico (e non delle oligarchie che vi si sono insediate), risultante da una analisi della società e dei bisogni delle persone concrete condotta con cultura adeguata e consapevole di che cosa sia già diventato il futuro. Questo esige cambiamenti profondi. Il tempo della cosmesi è finito.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …