Beppe Sebaste: Nella banca delle vite in pegno

19 Gennaio 2006
Diciamolo subito, il Monte dei Pegni è la banca dei poveri. Inventato dai frati francescani (il primo nel mondo fu istituito a Perugia da san Bernardino da Feltre), anche se ora si chiama "attività di credito su pegno" ed è approdato su Internet, la sua crescita (si calcola che nel 2005 il suo volume d’affari abbia superato i 600 milioni di euro) è difficilmente un buon segno. Salvo eccezioni, il credito su pegno riguarda quegli invisibili che non fanno notizia, che anzi si dissimulano e si vergognano della propria povertà. Pare che oggi si concentrino soprattutto al centronord, ma il Monte di Pietà a Napoli in via san Biagio dei Librai è affollato dalle prime ore del mattino, e le filiali del monte dei pegni del Banco di Sicilia vanno a gonfie vele. Il fatto è che è l’unico luogo che permette di ottenere subito denaro con un semplice documento di identità, e senza passare per gli usurai. Ma cos’è un Monte dei Pegni? Sapevo che non assomiglia più a quello dei romanzi e del cinema, dove si impegnava il corredo di nozze per acquistare una bicicletta (come nel celebre film di De Sica), o dove il musicista jazz lascia la sua tromba e il detective squattrinato la pistola. Al massimo oggi, oltre all’oro e ai gioielli, si possono impegnare pellicce. Ho visitato la sede storica del Monte dei Pegni di Roma, a pochi passi da Campo de’ Fiori, accompagnato da mio figlio tredicenne. La prima cosa che salta agli occhi è il numero di gioiellerie intorno al Monte che espongono il cartello "compro oro": nella nostra prima visita, distrattamente, ne abbiamo contate diciotto, comprese le due vetrine che attorniavano una nicchia illuminata con la statuina di Padre Pio tra due vasi di fiori finti. La seconda cosa che si nota, davanti al portone della Banca di Roma in cui ha sede, nella piazzetta del Monte di Pietà, è il capannello informe di persone che si muovono secondo un ordine che ci sfugge: entrano ed escono dal Monte dei Pegni, parlano confrontandosi oggetti, sciolgono il gruppo e lo ricompongono un po’ più in là. L’ultima volta sono stato a guardarli: voci che si sovrappongono decantando la propria merce, mani che estraggono dalle tasche anelli, preziosi, fasci di banconote da 100 e da 500. Uno di loro, il più animato, aveva un orecchino con brillante e pantaloni coi tasconi laterali pieni di orologi. Sono venditori in proprio, membri di un piccolo mercato indipendente ma abbarbicato al Monte di Pietà come cozze a uno scoglio. Comprano all’asta, rivendono separatamente i gioielli riuniti in piccoli lotti e corrispondenti a pegni ormai perduti. Non pare che abbordino direttamente le persone che portano oggetti in pegno. Aspettano. Sanno sempre cosa vale la pena di comprare. Una volta entrati, dopo aver attraversato il cortile con la fontana, solo l’habitué sa di non trovarsi nella hall di una banca qualsiasi, malgrado gli uscieri e il decoro. In fondo alla hall c’è la sala esposizioni dei preziosi, dove si possono lasciare offerte segrete d’acquisto. è dopo avere imboccato lo scalone che porta al primo piano che si riconosce l’umanità discreta e dolente di chi affronta questo luogo non con spirito commerciale, ma per operazioni assai diverse da quelle abituali delle banche. Siamo nel grande salone in cui, di fronte a una fila di sportelli, una maggioranza di donne anziane aspettano pazienti sulle file di sedie che esca il loro numerino. Alcune sono giovani, c’è anche qualche uomo di mezz’età, rare le coppie. L’ultima volta ci ha colpiti l’odore: non è quello di una qualsiasi sala d’attesa. Il sudore, si sa, varia l’odore secondo la causa che lo produce. Non c’è stato verso di trovare la parola giusta per la tonalità, silenziosa e grave, che ristagna nel salone dai soffitti alti. Il gentile dottor Laglia, che in una visita successiva mi ha guidato per le sale, dice che l’utenza è in realtà variegata: per esempio il commerciante che vuole disfarsi delle rimanenze di negozio per far fronte a una momentanea esigenza di liquidità, oppure rifornirsi di merce per Natale. Ma c’è chi, molto semplicemente, vende la propria fede. È dura avvicinare con le parole chi stringe nella borsetta o in un sacco di plastica gli oggetti che mostrerà in piedi allo sportello, del tutto simile a quello di una banca salvo che dietro al vetro ci sono una bilancia, una luce orientabile con una grossa lente d’ingrandimento, altri strumenti per l’analisi di ori e preziosi. Gli stimatori di là dal vetro sono periti e gemmologi. Sono responsabili della loro stima, in caso di errore ci rimettono del proprio. Come funziona? La stima conduce a una somma di denaro (circa l’80 per cento della stima) proposta a chi dà in pegno il proprio tesoro. È la stessa cifra della base d’asta che si legge nel cartellino di ogni "lotto" nella sala esposizione, qualora sia messo in vendita. Perché ciò avvenga, devono essere trascorsi tre mesi senza rinnovo del prestito, oppure sei mesi, più altri trenta giorni di sospensione durante i quali il proprietario può ancora disimpegnare l’oggetto. Solo il dieci per cento degli oggetti lasciati in pegno viene messo in vendita, dice il dottor Laglia. A quanto ammonti questa percentuale lo dicono le cifre delle vendite: ogni giorno viene bandito e venduto un centinaio di "lotti". Un lotto corrisponde a uno o più oggetti riuniti in uno stesso pegno, come vedremo percorrendo la sala esposizioni. Quanto alla sala dei disimpegni, che è anche quella dei rinnovi, sembra un deposito bagagli: un sistema di carrelli e di carrucole porta al bancone l’oggetto dato in pegno. Torniamo al vero e proprio banco dei pegni, la silenziosa sala delle stime dove si sentono i rumori dei tacchi e quelli dei respiri. Durante la prima visita annotai di una signora facile alle lacrime, che nominò alcune disgrazie della figlia. Era per lei che si trovava lì. Ma era a me che non venivano parole per sapere e far parlare. Non mi fu difficile invece notare qualche tossico. Quanto a mio figlio, il suo bottino di parole ammontava a due testimonianze: ‟Sono cose naturali della vita, inutile che ti ribelli”, gli ha confidato una signora anziana. E un’altra: ‟Questo anello è un’agata autentica, è un regalo di nozze di quando mi sposai”. L’ultima volta ho ritirato anch’io il numerino. Era un lunedì mattina, il giorno più intenso, dicono, che segue un fine settimana di decisioni sofferte. Chi viene a impegnare lo fa al mattino presto, in sordina, o prima di andare al lavoro. Apre alle 7,30, alle dieci è già affollato di aspiranti compratori. La signora seduta vicino a me, sessant’anni circa, si è accorta del mio smarrimento e della mia goffaggine. Le ho detto che era la prima volta. Per lei no, eppure si sente sempre imbarazzata. Credo fosse per attenuare il mio disagio che ha parlato di lei. Se ci si guarda intorno, ha detto, si vedono solo persone come noi, normalissime. A volte anche persone che sembrano ricche, vestite bene, donne con gioielli addosso. Ma sono tutte persone normali, ripete. Coi tempi che corrono, aggiunge, è sempre più difficile arrivare alla fine del mese. La pensione non basta. Soprattutto quando devi affrontare delle spese mediche. È sola, mi dice, vive con la sorella malata di tumore e bisognosa di analisi periodiche che non possono aspettare i tempi delle Asl, e deve quindi farle privatamente. Il calendario delle analisi scandisce le sue visite al Monte dei Pegni, dove lascia quei pochi oggetti d’oro che ha. Lo usa come prestito, perché le banche, a una come lei, i prestiti non li fanno, e l’unico modo è venire qui. Cerca sempre di disimpegnare i suoi ori: finora ci sono riuscita, dice. D’altra parte, più che imbarazzata sono triste, aggiunge, perché queste sono le mie cose. Le mie, le proprie cose: è l’irruzione della soggettività, della vita, in un luogo che, seguendo la naturale vocazione del mondo del valore, rimuove ogni accenno all’umano concreto, al proprio, alle persone. Il tentativo di occultare ogni traccia di vita vissuta, compresa la morte, cioè il trascorrere del tempo, cui concorre l’arredo spesso marmoreo delle banche, non riuscirà mai del tutto in un Monte dei Pegni. è questo che insegna la visita all’esposizione dei lotti di preziosi messi in vendita. I pegni perduti. Se la loro mostra dura tre giorni, anche con le continue sostituzioni l’effetto non cambia. C’è un senso di ripetizione estenuante, e per altri versi inebriante, nel susseguirsi di bacheche colme di ori, gioielli, argenteria, orologi, bracciali, fedi, ciondoli, fermacravatte, anelli, pendenti, spille, brillanti, coralli, pietre verdi, catene, collane e altri oggetti. Una scritta avverte: ‟Difetti, ammaccature, scheggiature come trovasi”. Di ogni lotto dice il peso. Altri cartelli eruditi insegnano storia, colore e purezza di rubini, diamanti, zaffiri, smeraldi, con tocco di esotismo che conduce nel Magok (Birmania) o nel Kashmir. Ma la dicitura dei cartellini segue regole identiche, e dopo qualche istante assume la forma di una litania, o uno strano mantra, complice l’assenza di punteggiatura. ‟2 orecchini oro perle di fiume piccoli rubini parti scheggiate come trovasi”. ‟Collane 2 ciondoli oro come trovasi”. ‟Collana ciondolo oro smalto parti scheggiate”. ‟5 anelli 2 fedi 2 collane 2 ciondoli 2 pezzi oro brillante vetri pietre 2 pietre mancano parti cifrate come trovasi peso 60,50 base d’asta 320,00 deposito cauzionale 64,00”. ‟Anello oro pietra parte ammaccata 3 catene 3 bracciali porta denari 2 anelli 2 ciondoli oro parte argento pietre vetri difetti come trovasi, peso 117,20, base d’asta 605,00, dep. cauz. 121,00”. ‟4 anelli 4 orecchini 3 spille bracciale oro parte scompagnata vetri 2 mancanti smalti parte argento peso lordo difetti gr. 38,30 pezzo metallo gr. 0,60 peso 38,90 euro 179,00 dep. cauz. 34,00”. Eccetera. Gli oggetti di maggiore valore, e forse bellezza, sono su tavoli al centro della sala. Collane di perle e brillanti, orologi cartier (in minuscolo, sì) in oro e quarzo per un peso che varia dai sessanta ai cento grammi, lotti assai diversi da quelli, in un angolo in fondo, in cui ancora si scorge l’aura di corpi, di mani e di braccia, come ‟anello bracciale oro pietra parte ammaccata graffiata gr. 14,20”, ‟orologio polso oro bulova datario quarzo parte rigata graffiata come trovasi gr. 30”. Vedo un orologio con cinturino logoro color topo, attaccato da un filo di plastica a un braccialetto sottile e a un anellino con pietra. Di fianco, uniti da un altro laccio di plastica, ‟anello 3 fedi oro brillanti vetri difetti, gr. 21,50, deposito cauzionale euro 26”. Sì, gli oggetti che colpiscono di più, quelli che emanano vero shining, non sono i più preziosi, ma quelli che fanno intravedere la storia invisibile delle persone che li possedevano e li usavano. O i regali dati al battesimo o alla comunione dei bambini - braccialetti con le palline di corallo, medagliette, braccialetti a maglia piatta da ragazzo, il ciondolino con Calimero, eccetera. Ho guardato quelli che percorrono la sala per prendere nota dei lotti da comprare. Anch’essi persone normali, coppie, ma anche qualche giovane vestito da fighetto con l’aria di farlo di mestiere. Compilano appositi moduli e vanno a consegnarli alla cassa. Nel giorno fissato, il banditore dell’asta raccoglie le offerte orali dei presenti, da confrontare con le offerte scritte. Una volta recuperati credito e interessi, la banca corrisponderà al proprietario dell’oggetto dato in pegno il resto, se c’è, della vendita. Il dottor Giuseppe Incarnato, dirigente dell’area crediti, mi accoglie con giovialità nel suo ufficio panoramico presso la sede della Banca di Roma all’Eur. Mi invita con calore a un’asta per vip che si tiene in un’altra sede storica della Banca di Roma, quella di via del Corso, dove si espongono preziosi di particolare valore. Mi spiega come il credito a pegno stia acquistando un ruolo quasi succedaneo, e meno oneroso, rispetto al prestito personale. Mi mostra documenti che illustrano il "trend crescente" del settore. Ha successo perché è discreto, ‟non devi dare troppe spiegazioni”, e dà la libertà di ‟lasciare un bene che non interessa più in cambio di liquidità”. Cita giovani coppie già indebitate per l’onere di una casa, che portano in pegno "beni" ereditati ma privi di valore affettivo, oppure regali di nozze inutilizzati. Il fenomeno è indice addirittura di una trasmutazione del "valore". Secondo il dirigente della Banca di Roma il credito a pegno svolge infatti un’intermediazione finanziaria tra mondi che altrimenti non si incontrerebbero, tra una domanda e un’offerta. Delinea un’economia dello scambio che sembra l’epica dei mercanti del Trecento nell’era della globalizzazione. Motore di questo scambio sarebbe il passaggio delle consegne di una certa idea del lusso e dello status symbol: se il mondo occidentale tende a non valorizzare più i preziosi e gli ori, a favore del design, di certe forme estetiche degli oggetti, e soprattutto di certi marchi, altri nell’Est del mondo - russi e cinesi soprattutto - sono molto interessati ai preziosi. La transazione avviene in ultima analisi tra un mondo del valore perduto e un mondo del valore nuovo, tra vecchia Europa e paesi emergenti. O, con altre parole, tra nuovi poveri e nuovi ricchi. Ma ci sono storie che il valore non contempla. Storie di Pietà, per quanto istituzionalizzata, che sempre di più occorrerà raccontare, se non si vuole che restino fantasmi, anonimi e senza appartenenza come le impronte e gli oggetti che il grande artista francese Christian Boltanski, cantore della memoria, da anni mostra nelle sue perturbanti installazioni. Una delle ultime si intitolava Monte di Pietà, e fu esposta nelle sale dell’ex Monte dei Pegni di Palermo.
Ha collaborato Pierre Sebaste

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …