Massimo Mucchetti: Il paradosso di Mediaset che vola ma non vale

30 Marzo 2006
Sostiene Berlusconi che il conflitto d’interessi tra l’essere lui azionista di comando di Mediaset e, al tempo stesso, presidente del Consiglio è un conflitto privo di importanza: in primo luogo, perché da premier non ha mai partecipato alle decisioni sulle materie connesse alle sue aziende, lasciando in quelle occasioni la sala di Palazzo Chigi; in secondo luogo, perché il titolo del Biscione si è rivalutato meno della media della Borsa, a riprova che l’interessato non avrebbe ricavato vantaggi dalla sua posizione politica. Dice il vero o dice il falso, Berlusconi? Dice il vero, ma tace su fatti che contano. Astenersi dalle decisioni è segno di buona educazione aziendale, ma niente di più. Le cronache abbondano di scambi di favori tra astenuti e votanti nei diversi consigli di amministrazione: io appoggio la stock option tua, e tu appoggerai poi la mia; e se questa è la prassi nella finanza, figurarsi in politica dove il leader manovra poltrone e carriere e talvolta, com’è accaduto con la Lega, aiuta perfino a pagare i debiti. Lasciare il consiglio in certe circostanze è necessario, ma non può dirsi sufficiente. Quanto ai guadagni, argomento di più rilevante consistenza, Berlusconi si ferma a metà strada. Da quando è stata quotata nell’estate del 1996 ai giorni nostri, Mediaset ha guadagnato il 155% mentre l’indice Mib ha fatto il 196%. Dal 14 maggio 2001 ai giorni nostri, durante il secondo governo Berlusconi, Mediaset ha perso il 21% e la Borsa ha preso il 6. Il discorso non cambia se, più correttamente, paragoniamo Mediaset alle altre tv europee quotate. In 10 anni, con l’eccezione del 1999, il rapporto tra il valore di Mediaset (capitalizzazione di Borsa più debiti) e il risultato operativo è sempre stato inferiore a quello medio dei concorrenti, e anche adesso Mediaset vale circa 9 volte il risultato operativo contro le 12 delle altre tv. Ma le quotazioni non sono tutto. Curiosamente, infatti, la tv commerciale italiana è di gran lunga la più redditizia in Europa, con un risultato operativo pari al 33% dei ricavi, più del doppio della francese Tf1 e della tedesca Rtl. È uno straordinario margine di profitto che dipende dall’elevato tasso d’incremento della raccolta pubblicitaria di Mediaset (negli ultimi 10 anni, il Biscione ha fatto sempre meglio, tranne una volta, della francese Tf1 e dell’inglese Itv) e dal contenimento dei costi (l’1% l’anno negli ultimi quattro anni, meno dell’inflazione). Simili performance dipendono sia dalla struttura dell’economia italiana che dà qualche vantaggio alle televisioni nella raccolta della pubblicità sia dalla scarsa concorrenza che Rai fa a Mediaset un po’ per insipienza e un po’perché la legge la autorizza a trasmettere un numero di spot largamente inferiore a quello della «concorrente». Mediaset, dunque, opera in un mercato benigno, per dirla con Merrill Lynch. Un contesto che la legge Gasparri, fortemente voluta dal governo, protegge in tanti modi tra i quali due spiccano sugli altri: i vincoli giuridici che impediscono la privatizzazione della Rai e dunque la nascita di un concorrente vero sul mercato pubblicitario; il freno all’espansione delle telecomunicazioni verso le tv, per cui, in teoria, Mediaset potrebbe scalare Telecom Italia ma non sarebbe consentito il contrario perché chi fa più del 40% dei ricavi del settore delle telecomunicazioni non può realizzare più del 10% dei ricavi del settore televisivo. Il fatto che questa posizione di privilegio non si rifletta pienamente nelle quotazioni del titolo farebbe di Mediaset il bersaglio ideale per una scalata a debito, visto che la Fininvest è scesa al 35% del capitale. Il fatto che nessuno ci abbia mai provato si spiega forse con i dubbi della Borsa sul quadro regolatorio, fonte degli straordinari profitti, troppo bello per essere eterno, e certo con il potere politico del primo azionista. Al quale restano i benefici privati del controllo.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …