Renato Barilli: De Pisis, le fuggitive impronte della realtà

03 Aprile 2006
Il titolo con cui si presenta la mostra in atto al Palazzo dei Diamanti, De Pisis a Ferrara, è da prendere proprio alla lettera. Poteva essere una ampia rassegna dedicata a celebrare in toto l’illustre figlio della città estense, il più grande che vi abbia visto la luce, assieme a Giovanni Boldini, nell’arco dell’arte contemporanea, nel qual caso si sarebbe dovuto procedere a radunare opere da ogni altra parte, ma a dire il vero la città natale ha già svolto in precedenti occasioni un tale compito. Questa volta ci si è limitati a condurre il censimento delle opere dell’artista (1896-1956) effettivamente presenti in quella sede museale (a cura di Maria Luisa Pacelli, fino al 4 giugno, cat. autoedito).
Purtroppo trova conferma una triste realtà, che gli amministratori delle nostre città sono stati assai distratti, nel corso dei tempi, verso i capolavori sorti entro le loro mura. Se Ferrara, come risulta da questa mostra, gode di un consistente nucleo depisisiano, lo deve a due donazioni successive, di Giuseppe Pianori e Manlio e Franca Marabotta. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, anche la vicina Bologna sarebbe stata del tutto sorda nei confronti del suo massimo pittore, Giorgio Morandi, se un amato ex-sindaco, da poco scomparso, Renzo Imbeni, non avesse deciso di acquistare una collezione di dipinti tardivi del maestro, quando se n’era andato da tempo.
Anche così, la grande arte del Ferrarese risulta a sufficienza, ma non senza qualche grave vuoto, a cominciare proprio dagli anni giovanili. Non è vero infatti che De Pisis nei suoi vent’anni si occupasse solo di letteratura, o di squisito collezionismo, confezionando erbari, raccogliendo carte preziose. Oppure sì, era così, ma quella pratica di una sorta di collage precoce fornisce la giusta chiave per entrare nel suo mondo, se non lo si vuole consegnare all’immagine sbagliata di un fragile impressionismo in ritardo. In partenza il giovane artista sentiva di dover collocare magistralmente nello spazio delle carte, dei fogli, già compilati da qualche altra mano. In questa pratica spontanea del collage batteva le vie di un Dadaismo visto da lontano, ma sostenuto da mosse ardite, come quella di stabilire già allora un contatto col mitico Tristan Tzara. Il passo successivo dell’artista è stato quello di produrre da sé le carte da comporre in un ardito castello aereo. Da qui l’idea di prendere le impronte al reale, applicandogli come delle pezze, dei fazzoletti, passando poi subito a strappar via quelle sorte di sudari, giusto in tempo per ricavarne impronte rapide, fuggitive, stenografiche, come si usa dire a commento di una procedura del genere. Ma si tratta appunto di piani chiusi ciascuno da un taglio, da un’inquadratura rigorosa: falde, lamelle, che poi l’artista ‟monta”, sovrappone, squaderna, in costruzioni ardite, assolutamente libere dal rispetto di una gabbia prospettica convenzionale.
In questo aspetto risiede il suo discepolato alla corte di De Chirico e Carrà, i due fondatori del movimento metafisico, trovatisi congiunti per ragioni fortuite proprio a Ferrara, nel fatidico 1917, quando uno stupito, ammirato giovanotto ventenne, allora un ‟dilettante” senza arte né parte, li contemplava, con intima adesione. E proprio da De Chirico il nostro artista trae quel senso dello spettacolo, per cui ogni dipinto si presenta come scenario, come ribalta inclinata in avanti, con pronto accompagnamento di quinte e fondali, il tutto secondo un’architettura libera, scombinata, periclitante.
Questa formula spiega il modo di procedere di De Pisis, che non è mai forte ‟dentro” i singoli lacerti, i singoli brani di pittura, dato che questi devono procedere in fretta, rubare qualche rapida impressione, all’epidermide del reale. Quello che conta, è che i singoli frammenti si incastrino, si incernierino tra loro, secondo una serie di cuciture tracciate con pennellate sempre sorrette da uno straordinario senso dell’equilibrio, raggiunto pur nello squilibrio, e sempre sull’orlo del crollo.
E così le modeste parvenze della vita di tutti i giorni diventano splendidi monogrammi impressi su stendardi orgogliosamente inalberati. I pesci fanno scintillare le loro scaglie, accese ulteriormente da un inizio di putredine, i fiori divampano, fanno scoppiettare i petali come petardi, come stridenti fuochi d’artificio, gli oggetti slittano, entro quegli spazi magnetici, fino a ritrovare il punto esatto, strategico, di un baricentro, di un ombelico della composizione, da cui si incaricano di reggere tutto il peso di quella serie illimitata di piani. Le vedute urbane, di Parigi, di Cortina d’Ampezzo, si svuotano della pienezza bolsa e mortificante dei muri, sfrondati come si possono sfrondare le foglie dei vegetali, così da mettere a nudo i tralicci portanti, che vibrano come nervature impazzite raggiunte da scosse sismiche.
Che De Pisis non sia ‟solo” un postimpressionista intento a pascersi degli ultimi frammenti di una grande abbuffata sensibilista, lo si desume proprio da quegli orli e margini e perimetri, appena accennati, eppure sempre presenti, a imbrigliare la visione, a darle un orientamento spaziale, a collocarla in una costruzione virtuale, leggibile, intuibile, anche se affidata a tracce minime, che tuttavia consentono di indovinare chiaramente le linee di forza da cui è percorso quello spazio, pur apparentemente così svuotato e sfoltito.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …