Paolo Di Stefano: Addio a Giuliano Gramigna, poeta del quotidiano

18 Aprile 2006
Giuliano Gramigna è morto ieri a Milano. Era nato a Bologna nel 1920. Era un uomo d’altri tempi, disapprovava le mode, il protagonismo e le polemiche facili, era in apparenza severo e persino burbero, ma era anche capace di slanci affettivi eccezionali. Specie nei confronti degli amici più giovani, quando l’affetto coincideva con una solidarietà culturale. Era un uomo d’altri tempi, ma è stato un critico, un poeta e un narratore tenacemente ancorato ai nostri tempi. Ha scritto Zanzotto: ‟Gramigna sa essere onnipresente nella nostra cultura letteraria; ma con una discrezione, un understatement, che sono pari alla tenacia, all’intensità, all’irrinunciabilità del suo intervenire, creativo o critico che sia”. È difficile individuare, nella nostra cultura letteraria, una personalità capace di dosare con tanta cura e onestà le proprie energie intellettuali e di esercitarle con un senso di necessità nella critica militante, nella saggistica, nella poesia, nella narrativa. L’ha fatto per oltre mezzo secolo nel segno della discrezione di cui parla Zanzotto. Gramigna aveva studiato Giurisprudenza a Milano, dove suo padre si era trasferito nel ‘22 per lavorare come impaginatore al ‟Corriere della Sera”. Dopo la guerra, la famiglia era rientrata a Bologna, ma Giuliano decise di restare nel capoluogo lombardo. Lì cominciò il ‟mestiere”: prima come redattore delle pagine provinciali e degli Esteri al ‟Tempo” di Milano, diretto da Pietrino Bianchi; poi, attorno al ‘48, grazie a Emilio Radius, ebbe inizio il suo vero tirocinio nel giornalismo, a ‟Settimo giorno”, dove poté concedersi alla sua vera passione di critico letterario con una rubrica settimanale. Passò al ‟Corriere d’Informazione” e nel ‘52 al ‟Corriere della Sera”, con una breve parentesi al ‟Giorno”. Le pagine culturali furono la sua palestra, ma anche quella che lui stesso considerò la sua condanna: diceva che giornalismo e letteratura sono inconciliabili. Due atteggiamenti opposti rispetto alla scrittura: l’uno fatto di certezze e determinazione, l’altra di dubbi e di crudeltà fino all’autodistruzione. Eppure per tutta la vita Giuliano è rimasto saldamente (e con rigore) appostato sui due fronti. E senza abbandonare la sua fede predominante: quella del lettore onnivoro che alimentava in egual misura il giornalista e lo scrittore. Certo, come critico è stato un caso unico. Sapeva scrivere per i giornali senza mai cedere alla superficialità richiesta dal mezzo. Riusciva a mettere al servizio della critica militante, con eleganza e lucidità cartesiana, le sue enormi conoscenze teoriche, la sua competenza semiotica, il rigore filologico che da ragazzo aveva appreso dai primi libri di Contini, la passione divorante per la poesia, la sua predilezione per lo sperimentalismo linguistico (l’antologia del Gruppo 63 porta un suo testo teatrale), il suo amore per la psicoanalisi freudiana e lacaniana: ‟La psicoanalisi - diceva - l’ho scoperta da adulto, e mi ha ridato l’entusiasmo, la voglia di scoprire che avevo a vent’anni”. Dall’ombra in cui preferiva rimanere, irrompeva ogni volta il suo potente carattere di lettore curiosissimo e imprevedibile, capace di vedere le novità prima degli altri e di motivarne le scelte. Aveva le sue lunghe fedeltà, da Mallarmé a Proust, da Valéry a Joyce fino a Gadda, Montale, Luzi, Bilenchi, Sanguineti, Arbasino, Malerba, Zanzotto, Raboni, Valduga e Viviani. Però con la stessa coerenza poteva innamorarsi degli esordienti Busi, Celati, Del Giudice o dell’ultimo ‟cannibale”. Fino a un paio d’anni fa, prima che la malattia lo tenesse a casa, oltre a scrivere elzeviri e recensioni, passava le mattinate al ‟Corriere” spulciando i giornali, italiani e stranieri (seduto alla scrivania, per poter leggere era costretto dalla vista precaria ad avvicinare i fogli a pochi millimetri dagli occhi), per redigere un elenco di proposte utili a ogni settore del giornale. A mezzogiorno e mezza, tirava fuori dall’armadio la sua vecchia macchina da scrivere e cominciava a battere sui tasti: ‟10 dicembre 1998. Scoperta dei resti di un ominide che forse rappresenta l’anello mancante nella catena della evoluzione umana. A che punto siamo oggi con Darwin e la sua teoria, spesso snobbata?”. All’una in punto scendeva dal direttore per consegnargli il suo foglio. Quella puntualità e quella precisione ci facevano un po’ sorridere, ma Ferruccio de Bortoli esortava tutti in riunione: ‟Mi raccomando, leggete le proposte di Giuliano...”. Ha scritto sei romanzi, da Un destino inutile (1958) a La festa del centenario (1989): Montale parlò di ‟mistilinguismo”, di una lingua ‟pensata da un uomo colto, afflitto da una nevrosi che lo aiuta (e gli impedisce) a/di vivere”. Sono romanzi sperimentali, che si interrogano sul rapporto tra vita e letteratura, sulla possibilità che ha la letteratura di addomesticare la morte. Tre libri di critica, che smontano e rimontano quasi ossessivamente le macchine narrative e poetiche più diverse. Magris rimase affascinato dalla sua capacità di ‟avventurarsi nel buio che avvolge e sorregge le parole”. Il suo ultimo libro di versi, il decimo (esordì nel ‘59 con La pazienza), si intitola Quello che resta (2003): c’è il lettore di Lacan e di Barthes, ci sono le emersioni oniriche delle sedute psicoanalitiche, c’è una memoria dolente, e c’è anche la laica disperazione di chi ha abitato un secolo ‟impervio” e passeggiando tra i muri e per le strade di Milano si confronta con ‟gli anni che restano da vivere”. Lasciando cadere ogni ‟acre resistenza alla emozione”. La poesia, alla fine, è riuscita ad abbattere in Giuliano quell’impulso innato di resistere all’emozione.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …