Paolo Di Stefano: E il gatto selvatico chiamò a raccolta i poeti

28 Aprile 2006
‟Servire da ideale punto di incontro per tutti coloro che fanno parte della grande famiglia del Gruppo Eni”. Era questo, nelle parole di Enrico Mattei, lo scopo di un house organ che il presidente dell’Eni volle fondare nel 1955. Il nome del periodico, ‟Il gatto selvatico”, ‟così estroso e in apparenza enigmatico”, è la traduzione letterale dell’inglese ‟wildcat”, parola che indicava il pozzo esplorativo, cioè ‟il trabocchetto che l’uomo, scavando nelle viscere della terra, tende al petrolio e agli altri idrocarburi”. Erano anni in cui ancora era viva la speranza di unire cultura industriale e cultura umanistica. Il primo periodico aziendale del dopoguerra fu Comunità, fondato da Adriano Olivetti nel marzo 1946. Nel ‘48 prese avvio la ‟rivista d’informazione e di tecnica” Pirelli, diretta dal poeta Leonardo Sinisgalli, il quale nel ‘53 sarà il fondatore di Civiltà delle Macchine, organo di Finmeccanica e poi dell’Iri. Lo scopo era quello di sposare le due culture, chiamando a raccolta i nomi più illustri della letteratura contemporanea. In questo panorama, Il gatto selvatico si presenta come un foglio fuori del comune per il taglio divulgativo e si direbbe ‟postmoderno” ante litteram, insieme rivista e rotocalco. Un’utopia democratica che il presidente dell’Eni volle giocarsi alla grande, com’era nel suo stile, prima di lanciare Il Giorno. Per la direzione la scelta cadde su un poeta: Attilio Bertolucci. Bertolucci aveva avuto un’esile esperienza giornalistica alla Terza pagina della Gazzetta di Parma, e soprattutto dal ‘50 lavorava con Anna Banti e Roberto Longhi a Paragone. In un’intervista del ‘94, Bertolucci ricordò di essere stato coinvolto nella nascita del Gatto dal suo amico Tito De Stefano, che dirigeva l’ufficio stampa dell’Eni. Mattei, in un primo incontro in via del Tritone, accolse il titolo proposto da Bertolucci, e precisò che non voleva una rivista di rappresentanza su carta patinata: ‟Voglio che sia una rivista per tutti, dal presidente della Repubblica all’ultimo perforatore”. Non intendeva riprodurre il modello della elegante rivista della Standard Oil, a tiratura limitata e adatta alle pubbliche relazioni più che all’utilità e all’intrattenimento del lettore. Chiese che ci fosse una parte dedicata ai ‟fatti aziendali” e che la copertina a colori riguardasse sempre l’Eni. Il resto, in piena libertà. Quel che interessava al direttore era poter fare di testa propria. E così fu. Il primo numero è del luglio 1955. Bertolucci fece disegnare la testata da Mino Maccari, incaricò Enzo Forcella e Ubaldo Bertoli di stilare le cronache aziendali, tenne per sé la controcopertina di storia dell’arte, affidò a Pietrino Bianchi la rubrica del cinema e a Giulio Cattaneo quella sulla ‟buona educazione”: come comportarsi in trattoria, in coda, in treno, in spiaggia, allo stadio, ai giardini pubblici, al supermercato, in campeggio. E poi, istruzioni sulla spesa, su come passare il week end, sulla pesca, sui fiori, sul ballo a cinquant’anni, sulla fotografia, sull’allattamento, sulla psicologia in fabbrica. E ancora, una rubrica sulla Tv (Gramigna su ‟Lascia o raddoppia” e i telequiz come fabbrica di illusioni) e un appuntamento sportivo: dal Giro d’Italia, dal campionato di calcio, dal rugby, dal tennis, eccetera. C’erano i giovani giornalisti che sarebbero passati al Giorno e quelli che cominciavano ad affermarsi sui settimanali: Valli, Fratini, Saviane, Golino, Dentice. Ma il piatto forte erano gli scrittori. C’erano tutti, o quasi, giovani e vecchi, narratori e poeti: Parise, Soldati, Manzini, Comisso, Manganelli, Dessì, Natalia Ginzburg, Caproni, Pea, Berto, Siciliano, Cassola, Bassani, Banti, Gatto, Betocchi, Parronchi, Bilenchi, Bevilacqua, La Capria. Persino Calvino, Sciascia (su Gela) e Gadda, che nel ‘59 avrebbe consegnato a Bertolucci la famosa ricetta del risotto alla milanese. Alcuni di questi scrittori furono chiamati a celebrare le glorie dell’oro nero. Allo stesso scopo, nel ‘59, Mattei chiamò il regista olandese Joris Ivens perché girasse per la Rai un documentario sull’Eni e sull’influenza americana nell’estrazione degli idrocarburi in Italia. Dopo molte discussioni, con la collaborazione di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani, Ivens realizzò L’Italia non è un paese povero con un commento scritto da Moravia, ma la Rai si rifiutò di trasmetterlo integralmente, ritenendolo un reportage troppo crudo, di ‟impostazione comunista”. Il figlio dello stesso Attilio, Bernardo Bertolucci, sarebbe poi stato chiamato a girare La via del petrolio (1965), il viaggio in nave dell’oro nero dalla Persia a Genova. Ma torniamo al Gatto. Proust e Joyce, Eliot e Hemingway, ma anche, nel ‘57, Dario Fo ‟matto da legare”, fumetti, motoscooter, pubblicità e gastronomia, Grace Kelly ‟donna ideale nel cinema”, grammatica e punteggiatura, neologismi (‟motel”, ‟applausometro”, ‟interpretariato”). Alto e basso. Intento didattico e sguardo sul mondo, con Salvadori che informava sulle elezioni Usa e Gabrieli sull’Iran. Il tutto preceduto dalle cronache dell’Eni: conferenze ufficiali di Mattei, cerimonie inaugurali dei pozzi, nuove bombole Agip-gas, nuovi centri industriali e no (sulla nascita di San Donato scriverà Comisso), il trofeo Supercortemaggiore, le stazioni di servizio, gli stabilimenti abruzzesi e napoletani, i segreti del ‟benzinaio” eccetera. Con il numero di novembre-dicembre 1964, Il gatto selvatico chiuderà. Era stato un laboratorio che dopo la morte di Mattei e il tramonto della sua utopia, forse, non aveva più senso.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …