Massimo Mucchetti: “Mai comprare titoli di un club”. Il disastro della Juventus e i presentimenti dell’Avvocato

25 Maggio 2006
‟L’idea di avere i sindaci, i revisori, la Consob che controllano il calcio mi fa venire la pelle d’oca”. E poi: ‟Sentimentalmente vale moltissimo, materialmente niente. Se fossi un investitore, non comprerei mai titoli di una società di calcio. Sono quelli che sul mercato si chiamano trophy investments. Come il vino Châteaux Margaux”. Questo disse Giovanni Agnelli nel giugno 1997 al sottoscritto che lo intervistava, assieme al fratello Umberto, sul primo secolo di storia della Juventus: noblesse oblige. Quattro anni dopo, l’Ifi quotò in Borsa i bianconeri aderendo alla linea umbertiana che considerava inevitabile il passaggio dal mecenatismo allo show business. Ora è proprio la Vecchia Signora a giustificare lo scetticismo del suo Primo Tifoso, che, peraltro, aveva cambiato idea: con il collocamento, infatti, l’Ifi guadagnava 77 milioni che aiutavano la famiglia a sottoscrivere la propria quota dell’aumento di capitale Fiat senza metter mano al portafoglio. La giustificazione postuma dello scetticismo di Giovanni Agnelli deriva certo dalla flessione del titolo dai 3,5 euro dell’offerta al pubblico agli attuali 1,2, che segnano peraltro il ritorno alla quotazione di qualche mese fa. Ma deriva anche e soprattutto dalle perdite finanziarie, che incombono sulla Juventus e sui suoi soci, e dalle possibili conseguenze penali in base alla legge 231, che estende alle società le responsabilità degli amministratori. Senza contare la lesione alla reputazione di chi la Triade aveva prescelto con il mandato di vincere senza chiedere soldi e che ha spostato la Juventus tra Fiat, Ifi e Ifil a seconda della propria, momentanea convenienza. Probabilmente, la Juventus si vedrà revocare gli ultimi due scudetti e verrà retrocessa. In quale serie - se in B, C1 o C2 - lo stabilirà il giudice sportivo. Che dovrà decidere tra l’osservanza rigorosa della norma nel paragone con i precedenti, tutti assai meno gravi, e la Realpolitik, che ai signori del pallone ha già reso troppi e ingiustificati favori. Un punto, comunque, è già chiaro: quanto più esemplare sarà la sentenza, tanto più ne risentiranno i conti della Juventus, e dunque il suo futuro sportivo, almeno nel breve termine. Non a caso, benché i padroni del calcio, gli azionisti scriteriati e i calciatori non siano soggetti meritevoli di tutele a carico del bilancio pubblico, c’è un’inconfessata e inconfessabile voglia di chiudere tutto con handicap di classifica anche pesanti, ma senza retrocessioni. Al momento, non si possono fare previsioni, ma solo indicare, all’ingrosso, i punti dolenti. Il club torinese rischia di perdere le sponsorizzazioni di Nike e Tamoil (15 e 20 milioni all’anno), specialmente se andrà in C; e di dover rinegoziare i diritti televisivi con Mediaset e Sky (altri 60-65 milioni di ricavi in meno a stagione). Nelle serie inferiori gli incassi dal botteghino si riducono e si perdono i diritti Uefa della Champions League (addio ad altri 20-25 milioni). A ricavi dimezzati la Juventus dovrebbe dimezzare i costi mettendo all’asta i calciatori, una rosa a bilancio per 140 milioni, che costa 50 milioni di ammortamenti e 120 di stipendi. Ma come sono, in realtà, i contratti di Moggi? E quanto peserà nelle ragioni di scambio l’esser costretti a vendere? Poi c’è il nuovo stadio, un investimento di almeno 120 milioni. E nulla diciamo dei danni che, sulla carta, potrebbero essere richiesti dalle altre squadre, dagli sponsor, dalle tv e dagli stessi soci di minoranza attraverso class actions. La Juventus ha un patrimonio netto di 83 milioni: tanto rispetto agli altri club, poco con simili nubi all’orizzonte. Rinnovato il consiglio, ci vorrà un forte aumento di capitale. Ma come faranno gli Agnelli a mettere soldi nella Juventus quando la Fiat Auto non è ancora salva?
Con la consulenza tecnica di Miraquota

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …