Massimo Mucchetti: Quando le imprese non hanno bisogno della Borsa

05 Giugno 2006
Le Considerazioni finali di Mario Draghi all’assemblea della Banca d’Italia sono state accolte da un coro di consensi certo giustificato dalla qualità del discorso, ma anche così unanime da far sospettare la nascita di un nuovo conformismo. Eppure, il riferimento costante del governatore al modello anglosassone poteva e può offrire lo spunto per un diverso parere. Un conto, infatti, è liberare il mercato dei diritti di proprietà dai vincoli in eccesso, un altro conto è individuare nella Borsa la leva dello sviluppo delle imprese italiane. Togliere alla Vigilanza i poteri di intervento preventivo sui progetti bancari dà libertà a soggetti che ne hanno bisogno per crescere. Immaginare una politica degli strumenti finanziari tutta centrata sul mercato azionario, invece, rischia di offrire un’opportunità generalmente non richiesta dall’Italia industriale. Del resto, la Borsa serve a prelevare risorse più che a investirle: nel decennio 1995-2005, il saldo tra le emissioni di azioni e obbligazioni convertibili a favore delle imprese e l’erogazione di dividendi e le Opa a favore dei soci risulta negativo per 83 miliardi. Le società, tranne 200-250 eccezioni spesso attive in business poco esposti alla concorrenza, non si quotano perché non ne hanno bisogno: secondo Mediobanca, il 44% del passivo delle 3.966 medie imprese italiane è rappresentato da capitale e riserve contro il 37% delle multinazionali europee. E poiché la crescita comporta spesso la perdita del controllo (il 57% delle medie imprese divenute grandi viene assorbito da altre maggiori) e talvolta il default (l’1,4% delle medie divenute grandi fallisce contro lo 0,22% delle medie), ben si comprende perché la dimensione aziendale cambi poco. Tanta prudenza sarebbe cieca se queste imprese non riuscissero a presidiare i mercati. Ma, per fortuna, il sistema reagisce più di quanto si creda. Basti guardare alla partecipazione dell’Italia al commercio internazionale per un periodo tale da annullare l’effetto dei cambi. Dal 1996 al 2004, mentre il mondo trainato da Cina e India aumenta del 70% le esportazioni, l’Italia viaggia, è vero, sul 38%. Ma gli altri? Usa e Giappone crescono del 45%, il Regno Unito del 46%, la Francia del 50%, la Germania dell’85%. Ciò vuol dire che, quanto a competitività, le imprese figlie del modello renano sono vitali. Il vero problema è il Pil di Eurolandia che cresce poco, ma questo riguarda l’assetto di un’economia che, come dice Draghi, ha bisogno di più liberalizzazioni. L’Italia, pur migliorando nel 2005, ha una difficoltà maggiore. Ma da dove viene? Se si scava nei bilanci (Fulvio Coltorti, «Il Mal d’Africa e la competitività dell’Italia», Unioncamere, 2006), si scopre che sono i gruppi maggiori a perdere colpi e ad abbassare la stessa dimensione media delle imprese, avendo essi ridotto gli organici del 23% e la loro taglia da 1.649 a 1.382 addetti. La ripresa della Fiat migliorerà la fotografia del 2006. Ma è chiaro che la polemica sul «nanismo» come causa di declino industriale deve scegliere meglio il bersaglio. D’altra parte, non sarebbero le medie imprese a far grande la Borsa. Se le quotassimo tutte secondo i valori medi degli ultimi 10 anni, collocando presso il pubblico il flottante tipico delle small cap (26%), avremmo un aumento dei titoli negoziabili pari a 20 miliardi, più vicino al 5% che al 10% del flottante attuale di Piazza Affari. L’interlocutore naturale delle piccole e medie imprese, che rappresentano la parte migliore dell’Italia industriale, resta dunque la banca che semmai, in vista del rialzo dei tassi, dovrà cercare strumenti nuovi di gestione del rischio a metà strada tra il capitale e il debito classici per portare il risparmio verso la produzione di beni e servizi.

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Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …