Paolo Di Stefano: Mondiali 2006. Sull'attenti tra orgoglio e minacce

20 Giugno 2006
Curioso, non ce n’è uno che sia più vittimista di quello italiano: ‟Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Per trovare analoghi accenti di retorico understatement, bisogna ricorrere ai polacchi, che aprono il loro inno nazionale con una frase che può lasciare interdetti: ‟La Polonia non è ancora perita”, subito però compensata da uno scatto d’orgoglio mica da ridere con la minaccia di una ‟sciabola” contro l’eventuale straniero (non si dà inno senza minaccia). L’inno di Mameli, non c’è dubbio, rimane il più vittimista. Non c’è Ghana che tenga, anche quando invoca ‟l’umiltà sincera” contro l’oppressore. Il cuore di mamma (o di papà) è tutto italico, reso esplicito nell’accenno ai ‟bimbi” che ‟si chiaman Balilla”. Sono nostri i soli bambini che si trovano nei canti nazionali. A parte quelli che compaiono nell’inno tunisino, dove però gli adolescenti ‟si lanciano come leoni all’assalto del nemico”. Anche se poi l’ultima strofa pulp di Mameli, con il sangue dei nemici crudelmente bevuto dagli austriaci, non ha eguali. Neanche, tutto sommato, nell’inno messicano, sicuramente il più bellicoso, o almeno quello dalle tinte più fosche, che invoca il ‟sonoro ruggir del cannone” a ogni pie’sospinto. E se non bastasse vede ovunque ‟onde inzuppate di sangue” e ‟campi irrigati di sangue”. Subito dopo il Messico viene la Francia: la famosa Marsigliese è una sequela di invocazioni all’armi (refrain che ritroviamo anche nell’inno portoghese: ‟all’armi, all’armi”): ‟Formate i battaglioni, marciate, marciate, ché un sangue impuro bagna i nostri solchi”. Marciare non marcire. E una continua maledizione all’‟orda di schiavi, di traditori e di re congiurati” cui oppone i propri ‟accenti virili”. Non aspettatevi niente di più virulento dagli Stati arabi, che si limitano a invocare ‟la gloria di tutti i musulmani” (Arabia Saudita) o ‟la luce negli occhi dei credenti” (Iran). Ben più preoccupante suona, come si sa, il ‟Deutschland, Deutschland über alles” (Germania, Germania, al di sopra di tutto nel mondo), che però in origine inneggiava a un innocuo sentimento di fratellanza e unità (non c’è inno senza fratellanza e unità). Nella retorica patriottica d’ogni dove trionfa la natura. Una flora da arcadia. Gli australiani vantano ‟il mare che cinge la nostra casa” e ‟la nostra terra che abbonda di doni naturali ricchi e rari di bellezza”. I brasiliani non ne parliamo: rivendicano, accanto al ‟braccio forte” e al petto che ‟sfida la stessa morte”, il ‟cielo puro, prospero e limpido”, ‟i bei ridenti campi pieni di fiori”, esclamando con fierezza che ‟i nostri boschi hanno più vita!”. Senza iperbole non si dà inno, dunque non deve meravigliare che il Brasile diventi ‟gigante bello, forte, impavido colosso”, pronto a mostrare, a scanso di equivoci, ‟la clava forte della giustizia” per impedire ai figli di fuggire la battaglia. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Niente colpi alla botte in Angola, il cui inno ideologico non concede sfumature idilliache: ‟Rivoluzione per il potere del popolo” e basta. Bellezza, forza, coraggio. Vita e morte. Ossimori, ossimori. C’è un codice universale dell’orgoglio nazionale: senza ossimori non si dà inno. Del resto, la Patria richiede un contributo equilibrato di cuore e di mani (cuore e mani in coppia ricorrono con ossessiva regolarità da Nord a Sud, da Est a Ovest). D’accordo i buoni sentimenti, ma è indispensabile menar le mani quando serve, sia chiaro. Più natura che cultura, si diceva. I tedeschi sono tra i pochi a esaltare un proprio manufatto: il vino (sic!). Gli spagnoli si accontentano di incudini e ruote. Ma i fiumi non si contano, per segnare i confini come i gatti. Altrove giganteggiano i mari e gli oceani, compreso quello portoghese che ‟ruggisce d’amore”. I cechi sono sicuri di vivere, beati loro, ‟nel paradiso terrestre”, dove ‟l’acqua scroscia sui prati e le fronde frusciano sulle rocce”. Natura specchio dell’anima individuale e dell’armonia tra i popoli. È il motivo più battuto dai Paesi del Nord e dell’Est: la Corea del Sud, nel suo Aegukga, sembra un quadro del giapponese Hokusai e canta le onde del mare orientale, i suoi monti, il blu cristallo autunnale, la luna immutabile, i fiumi magnifici. Non si dà inno senza simboli, come le rocce e il muschio giapponesi. La Svezia è la meno agguerrita: si riconosce come la ‟nazione più amichevole del mondo”, insiste sulle montagne, sui silenzi, sul sole (manco fosse Sorrento), sul cielo e sui ‟pascoli verdi”. Prima di lasciarsi andare a un poetico calembour: ‟So che tu sei e che tu sarai come tu eri”. La seconda persona è sicuramente più efficace della terza: un parlare allo specchio rispetto al più altisonante (e improbabile) noi di Mameli. Ma c’è anche un eroe (non si dà inno senza eroi), megalomane e malinconico insieme, che parla in prima persona: è il Guglielmo olandese (di Nassau), memore delle proprie gesta e della propria devozione. Se invece cercate un altro Guglielmo (Tell) in Svizzera, rimarrete delusi: nella versione italiana del Salmo elvetico c’è una ‟bionda aurora” che ‟il mattin c’indora”, c’è un’alpe che ‟rosseggia” e ‟a pregar allora t’atteggia in favor del patrio suol”. C’è un ‟nembo impetuoso” che ‟rugge e strepita” (manco si fosse in zona tsunami). Gli inni, si sa, pur essendo per definizione più realisti del re, mancano di realismo.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …