Marina Forti: I diamanti di guerra vanno al cinema
30 Giugno 2006
Perché il Congresso mondiale dell'industria diamantifera teme tanto Leonardo DiCaprio? Proprio così: il 32esimo World Diamond Congress riunito nei giorni scorsi a Tel Aviv (la città israeliana è uno dei maggiori centri mondiali di lavorazione e di commercio dei diamanti), è risuonato di dichiarazioni assai preoccupate per un certo film in cui comparirà l'attore reso celebre da Titanic. Non è una questione personale, certo, ma il fatto è che il film ti intitola The Blood Diamone, ‟il diamante del sangue”, prodotto da Warner Brothers. È ancora in lavorazione, lo stanno girando in Sudafrica e in Mozambico: DiCaprio fa la parte di un mercenario che viene arrestato perché contrabbanda diamanti dalla Sierra Leone in pieno conflitto (una lunga guerra civile che è durata fino al 2002 e ha fatto qualcosa come 50 mila morti).
Il soggetto e il titolo sono chiari: ‟diamanti insanguinati” è un termine coniati da alcune organizzazioni per i diritti umani negli anni '90 per dire che molte delle guerre in corso in Africa si finanziavano proprio grazie ai diamanti (e altre risorse naturali, come il legname tropicale). Il primo caso, e il più evidente, è stato l'Angola: una delle più vecchie e sanguinose guerre civili africane, cominciata nel 1975 quando l'ex colonia portoghese ha conquistato l'indipendenza e un movimento guerrigliero ha preso le armi contro il governo legittimo. Erano tempi di guerra fredda e i ribelli di allora erano sostenuti dal regime bianco del Sudafrica (c'era ancora l'apartheid) e dagli Stati uniti, mentre il governo legittimo aveva chiesto l'aiuto di Cuba. Poi però la guerra fredda è finita, e i ribelli hanno perso i loro sponsor. Ma la guerra, dopo un breve tentativo di riconciliazione nazionale, è ripresa: finanziata questa volta dai diamanti, che l'Angola procude in abbondanza e di ottima qualità. I diamanti erano una fonte di reddito tale che a un certo punto Savimbi è stato il maggior acquirente di armi ‟non governativo” sul mercato mondiale. Finché nel 1994 Human Rights Watch ha accusato De Beers, azienda sudafricana che controlla il mercato mondiale dei diamanti, di acquistare pietre estratte dai ribelli e di esserne perfettamente consapevole. La campagna contro i ‟diamanti insanguinati” ha portato il Consiglio di Sicurezza dell'Onu nel 1998 a decretare l'embargo sui diamanti angolani ‟non ufficiali”, cioè non certificati dal governo (il contrabbando è continuato, anche se per vie più tortuose, e anche la vendita illegale di armi ai ribelli: la guerra angolana è finita davvero solo nel 2002, alla morte di Savimbi, dopo mezzo milione di morti ).
L'Angola ha messo in evidenza una ‟tendenza” mondiale: perse le motivazioni politiche, annacquati i riferimenti ideologici, caduti gli alibi ideali, i diamanti erano diventati non solo un mezzo per perpetuare la guerra ma un movente. Altre guerre sono state alimentate da ricchezze naturali negli ultimi 15 anni: come le due guerre congolesi, in cui la posta in gioco era una delle maggiori ricchezze minerarie dell'Africa, o la ribellione in Sierra Leone, di cui parla, appunto, il film con DiCaprio.
Si capisce il fastidio dei diamantieri: una produzione hollywoodiana, attori famosi, un film di quelli che arrivano al grande pubblico... Una cattiva pubblicità. ‟Il problema dei diamanti di guerra è praticamente finito”, ha commentato l'altro giorno alla Reuter Schmuel Schnitzer, presidente uscente dalla World Federation of Diamond Bourses, la federazione mondiale delle borse dei diamanti: ‟Il film porterà il pubblico a pensare che la situazione è sempre la stessa, e questo è fare un'ingiustizia alla nostra industria che ha fatto tanto”.
Ha fatto tanto? Schnitzer si riferisce probabilmente al meccanismo di autocontrollo entrato in vigore nel 2003, chiamato ‟programma di autocertificazione del Kimberley Process”, risultato di tre ani di colloqui tra le aziende e i i paesi coinvolti nell'estrazione, lavorazione e commercio dei diamanti, sotto l'egida delle Nazioni unite. Il programma chiede ai governi produttori di certificare i diamanti estratti legalmente nel loro territorio, e ai compratori di acquistare solo gemme certificate. Ma è solo un meccanismo volontario, e lascia molte scappatoie. ‟Il Congresso diamantifero mondiale e altri organismi commerciali dovrebbero sviluppare un sistema indipendente, affidati a terzi, per la verifica dell'autoregolamentazione”, ha commenta Corinna Giffillan di Global Witness, una delle organizzazioni indipendenti internazionali che ha decumentato l'uso delle risorse naturali nel finanziare guerre: ‟Dicono che il problema è risolto, ma hanno lanciato solo operazioni di immagine”.
Il soggetto e il titolo sono chiari: ‟diamanti insanguinati” è un termine coniati da alcune organizzazioni per i diritti umani negli anni '90 per dire che molte delle guerre in corso in Africa si finanziavano proprio grazie ai diamanti (e altre risorse naturali, come il legname tropicale). Il primo caso, e il più evidente, è stato l'Angola: una delle più vecchie e sanguinose guerre civili africane, cominciata nel 1975 quando l'ex colonia portoghese ha conquistato l'indipendenza e un movimento guerrigliero ha preso le armi contro il governo legittimo. Erano tempi di guerra fredda e i ribelli di allora erano sostenuti dal regime bianco del Sudafrica (c'era ancora l'apartheid) e dagli Stati uniti, mentre il governo legittimo aveva chiesto l'aiuto di Cuba. Poi però la guerra fredda è finita, e i ribelli hanno perso i loro sponsor. Ma la guerra, dopo un breve tentativo di riconciliazione nazionale, è ripresa: finanziata questa volta dai diamanti, che l'Angola procude in abbondanza e di ottima qualità. I diamanti erano una fonte di reddito tale che a un certo punto Savimbi è stato il maggior acquirente di armi ‟non governativo” sul mercato mondiale. Finché nel 1994 Human Rights Watch ha accusato De Beers, azienda sudafricana che controlla il mercato mondiale dei diamanti, di acquistare pietre estratte dai ribelli e di esserne perfettamente consapevole. La campagna contro i ‟diamanti insanguinati” ha portato il Consiglio di Sicurezza dell'Onu nel 1998 a decretare l'embargo sui diamanti angolani ‟non ufficiali”, cioè non certificati dal governo (il contrabbando è continuato, anche se per vie più tortuose, e anche la vendita illegale di armi ai ribelli: la guerra angolana è finita davvero solo nel 2002, alla morte di Savimbi, dopo mezzo milione di morti ).
L'Angola ha messo in evidenza una ‟tendenza” mondiale: perse le motivazioni politiche, annacquati i riferimenti ideologici, caduti gli alibi ideali, i diamanti erano diventati non solo un mezzo per perpetuare la guerra ma un movente. Altre guerre sono state alimentate da ricchezze naturali negli ultimi 15 anni: come le due guerre congolesi, in cui la posta in gioco era una delle maggiori ricchezze minerarie dell'Africa, o la ribellione in Sierra Leone, di cui parla, appunto, il film con DiCaprio.
Si capisce il fastidio dei diamantieri: una produzione hollywoodiana, attori famosi, un film di quelli che arrivano al grande pubblico... Una cattiva pubblicità. ‟Il problema dei diamanti di guerra è praticamente finito”, ha commentato l'altro giorno alla Reuter Schmuel Schnitzer, presidente uscente dalla World Federation of Diamond Bourses, la federazione mondiale delle borse dei diamanti: ‟Il film porterà il pubblico a pensare che la situazione è sempre la stessa, e questo è fare un'ingiustizia alla nostra industria che ha fatto tanto”.
Ha fatto tanto? Schnitzer si riferisce probabilmente al meccanismo di autocontrollo entrato in vigore nel 2003, chiamato ‟programma di autocertificazione del Kimberley Process”, risultato di tre ani di colloqui tra le aziende e i i paesi coinvolti nell'estrazione, lavorazione e commercio dei diamanti, sotto l'egida delle Nazioni unite. Il programma chiede ai governi produttori di certificare i diamanti estratti legalmente nel loro territorio, e ai compratori di acquistare solo gemme certificate. Ma è solo un meccanismo volontario, e lascia molte scappatoie. ‟Il Congresso diamantifero mondiale e altri organismi commerciali dovrebbero sviluppare un sistema indipendente, affidati a terzi, per la verifica dell'autoregolamentazione”, ha commenta Corinna Giffillan di Global Witness, una delle organizzazioni indipendenti internazionali che ha decumentato l'uso delle risorse naturali nel finanziare guerre: ‟Dicono che il problema è risolto, ma hanno lanciato solo operazioni di immagine”.
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …