Lorenzo Cremonesi: La grande fuga dal Sud, terra di nessuno tra crateri e macerie
03 Agosto 2006
È una tregua che non funziona. Colpi di mortaio, missili e cannonate sono caduti ieri tutto il giorno lungo il confine. Mettersi in viaggio sembra un terno al lotto, una roulette russa con l’ignoto. Eppure le immagini strazianti del massacro a Cana servono da pungolo. E migliaia di famiglie che erano rimaste intrappolate per tre settimane nei villaggi del Libano meridionale hanno approfittato del ‟cessate il fuoco” di 48 ore decretato da Israele l’altra notte per fuggire verso nord. Ieri abbiamo contato centinaia di auto, camioncini, persino trattori con rimorchio, che dai centri abitati sulle colline cercavano di raggiunge la strada costiera e da qui andare oltre Tiro. I problemi per chi parte però sono infiniti. E non solo per le bombe. Israele ha sospeso i raid aerei e diradato (ma non del tutto) i colpi tirati dalle sue corvette al largo della costa libanese. Restano però gli scambi a fuoco tra esercito israeliano e pattuglie dell’Hezbollah. La stragrande maggioranza delle strade è ancora bloccata dai crateri delle bombe e dalle macerie. Una via che sino a ieri era percorribile ora potrebbe non esserlo più. Non c’è benzina, tutto è chiuso, abbandonato, se fori più di una volta non sai come fare per riparare le gomme. Ognuno è lasciato a se stesso in questa gigantesca terra di nessuno. Una guerra a bassa intensità che subiamo anche noi nel tentativo di raggiungere Bint Jbeil, la cittadina a 5 chilometri dal confine israeliano dove negli ultimi giorni sono avvenute le battaglie più cruente. Tutto bene lungo la costa sino a Nakura, dove si trova il quartiere generale dell’Unifil, gli osservatori dell’Onu. Da qui in poi la strada corre parallela ai fili spinati irti di sensori elettronici che segnano il confine del cessate il fuoco con Israele sin dal 1949. Ai villaggetti cristiani si alternano quelli sciiti. In questi ultimi le distruzioni appaiono più evidenti, non c’è abitazione senza segni di esplosioni. Da qui è appena passato un convoglio Unifil, che porta cibo e acqua a Rmaich, 10 chilometri prima di Bint Jbeil. È il momento dei convogli umanitari. La Croce Rossa libanese afferma di aver estratto i cadaveri di 25 abitanti in tre villaggi - Sreefa, Zibqeen e Qleilah - bombardati nei primi giorni del conflitto. Ma noi a Rmaich non arriveremo mai. Due chilometri prima, dove da un’altura puoi vedere chiaramente i kibbutzim e le basi militari israeliane a meno di 300 metri, un mortaio apre il fuoco. Sono tre colpi di avvertimento contro la nostra auto, che cadono a pochi secondi uno dall’altro a un centinaio di metri. Il messaggio è chiaro: Israele è ben contento di vedere i mezzi dei civili in fuga, ma fa di tutto per evitare il traffico in entrata. Alla sede dell’Unifil di Nakura i portavoce non hanno dubbi. ‟Questa tregua serve a Israele per espellere i civili e poter poi attaccare liberamente le milizie dell’Hezbollah. Per loro la strage di Cana è un incidente imbarazzante. Vorrebbero evitare che si ripeta, ma nel contempo sono più determinati che mai a eliminare le milizie armate sciite”, dicono. Le conseguenze secondo loro rendono quasi impossibile la missione degli osservatori internazionali. ‟Non possiamo fare nulla contro Israele, che impone di fatto la pulizia etnica tra le popolazioni a ridosso del confine, né contro l’Hezbollah, che lancia una guerra santa e mira in ultima analisi alla distruzione dello Stato ebraico”, spiegano. L’impotenza dell’Onu la vedi anche tra i 51 uomini di Italair, il contingente italiano che ha il compito di fare volare i 4 elicotteri della forza di pace. ‟In teoria siamo pronti a decollare in ogni momento. Nei fatti i nostri elicotteri non compiono una missione dal 12 luglio, quando sono iniziati gli scontri”, conferma il comandante, tenente colonnello Antonio Giunta. Al comando Unifil ci sono testimonianze dirette del forte consenso sociale di cui gode l’Hezbollah tra le masse sciite del sud. ‟Dopo il ritiro israeliano da queste zone, nel maggio 2000, lo Stato centrale libanese sarebbe l’unica autorità legale con cui noi dovremmo trattare. Ma in ogni crisi, i rappresentanti di Beirut svaniscono nel nulla e gli Hezbollah si dimostrano gli unici capaci di imporre ordine e programmare aiuti alla popolazione. Dovremmo trattare con l’esercito, la polizia, i sindaci. Ma anche questa volta l’interlocutore più importante resta Nabil Kaouk, massimo responsabile civile e militare dell’Hezbollah nel sud”, ammettono allargando le braccia. Oggi è la azienda per i lavori pubblici dell’Hezbollah che ripara le strade bombardate. A Tiro ogni mattina le famiglie più bisognose sfollate dai villaggi trovano davanti alla porta del loro ricovero pacchi dono delle associazioni caritative d’Hezbollah. Contengono per ogni abitante: 3 uova, un tozzo di pane, frutta e una scatoletta di mais. Il caos imperante nel governo centrale è stato invece evidente sin dalla prima settimana del conflitto e da allora i civili ne fanno le spese. I militari israeliani iniziarono infatti subito a diffondere comunicati minacciosi affinché la popolazione fuggisse a nord, oltre il fiume Litani. ‟Partite immediatamente, o resterete schiacciati nelle vostre case”, urlavano secchi dagli altoparlanti posti sulle colline. Allora il ministero degli Interni da Beirut inviò con urgenza un fax a Nakura per chiedere all’Unifil di aiutare a far evacuare i civili. Ma subito dopo intervenne l’ufficio del premier Fouad Sinora, che ordinava di bloccare qualsiasi intervento in questo senso. Spiegano le fonti Onu: ‟Non potevano chiederci una cosa del genere. Temevano di apparire come collaborazionisti del piano di pulizia etnica voluto dal governo Olmert”.
Lorenzo Cremonesi
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista, segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del “Corriere della Sera”, a partire dal 1991 ha avuto modo …