Massimo Mucchetti: L'Enel scivola in Europa. E i governi? In fuga dai loro doveri

20 Luglio 2006
Assai più dell’Eni, protetto da gruppi dirigenti così forti da rappresentare, talvolta, uno Stato nello Stato, l’Enel ha subìto la politica dell’azionista di controllo. Che spesso si è dimostrato un cattivo azionista. Con il nuovo governo cambierà qualcosa? L’attribuzione al ministero dello Sviluppo del potere di indirizzo sulle partecipazioni, detenute dal ministero dell’Economia, autorizza l’aspettativa di un’assunzione di responsabilità più completa. E questo sarebbe un bene sia che il governo decida di conservare l’Enel sotto la mano pubblica, sia che si vada alla privatizzazione definitiva essendo comunque irragionevole vendere al buio un’azienda di tale importanza. Tirate le somme, fino a prima della scalata virtuale a Suez, l’Enel si è limitato a pagare dividendi: non poteva dirsi una strategia ambiziosa, ma questo il governo chiedeva. Tra il 2000 e il 2005, l’Enel ha distribuito il 94% dell’utile, frutto non di rado della cessione di beni patrimoniali; la tedesca E.on, che ha assorbito Ruhrgas, ha dato soltanto il 31%; l’altra grande tedesca, la Rwe, nata dall’accorpamento delle imprese dei Länder, il 57%, la spagnola Iberdrola il 59% e la belga Electrabel, oggetto del desiderio dell’Enel, il 78%. Tanta italica generosità non si spiega con margini di guadagno speciali. Il margine operativo lordo dell’Enel, infatti, è pari al 23% dei ricavi contro il 18% di E.on e il 21% di Rwe (che hanno anche attività idriche a minor rendimento), il 29% di Iberdrola e il 19% di Electrabel. Tanta generosità si spiega solo con la volontà dell’azionista, che ha rinunciato a investire come avrebbe dovuto per soddisfare le proprie esigenze di cassa. Se questa era l’intenzione, il Tesoro avrebbe fatto meglio a togliere subito all’Enel le centrali in eccesso e a venderle per conto suo, e poi a conservare comunque elevata la propria partecipazione nell’Enel: avrebbe preso per intero i vantaggi del break up e contenuto comunque la dispersione dei dividendi. Ma i grandi limiti sono altri. In primo luogo, è mancata una regia nella liberalizzazione: invece di pilotarla per promuovere due o tre concorrenti di vaglia ci si è ridotti alla spartizione dei margini del business elettrico tra Re Enel e l’opposizione di Sua Maestà come dimostra il tasso di sfruttamento dei nuovi impianti calibrato in modo da sostenere i prezzi ed evitare di buttare fuori mercato le centrali meno efficienti. In secondo luogo, si è reso marginale l’Enel in Europa senza riuscire a fare della Edison l’altro big italiano dell’energia e del gas. E questo a causa del campanilismo delle ex municipalizzate e delle resistenze dell’Eni, che lasciò cadere l’idea di fare un’Opa su Edison per poi conferirle Enipower e Italgas allo scopo di rimettere poi in Borsa l’E.on italiana. Nel 1998, il 10% della produzione di energia elettrica della Ue veniva dall’Enel, secondo dopo la francese Edf che faceva il 20%. I primi 8 produttori detenevano il 58% del mercato. Nel 2004, gli stessi magnifici 8 sono saliti al 75% del mercato, ma la quota Enel è scesa al 6%, quinta dopo Edf (22%), E.on (14% che arriverebbe al 19 con la spagnola Endesa), Rwe (12%) e Vattenfall (7%). In Europa, la liberalizzazione è stata usata dai più forti per crescere attraverso il reinvestimento dei profitti e le concentrazioni intersettoriali e sovranazionali. In Italia ha giustificato la fuga dalle responsabilità industriali del governo e dell’establishment. Ora l’Enel, con il suo piccolo debito, deve sperare che lo Stato ne sostenga finalmente la crescita, altrimenti lo scalatore prossimo venturo potrà pure ripagarsi la scalata con i margini pingui dell’ex monopolio ancora in posizione dominante. (con la consulenza tecnica di Miraquota)

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …