Massimo Mucchetti: Fondazioni bancarie. Ora bisogna pensare alla leadership di domani

28 Agosto 2006
Forse è arrivato il momento, per la cultura liberale, di rivedere il giudizio negativo sulle fondazioni bancarie, soggetto di diritto privato e finalità pubbliche, l’animale più curioso di quella pur sorprendente Fattoria che è il sistema economico italiano. Considerate fin dall’inizio centri di potere clientelare per lo più postdemocristiano, e dunque freni pericolosi alla modernizzazione e all’apertura al mercato del sistema bancario, le fondazioni sono invece state il motore di Unicredito e di Intesa-Sanpaolo. I banchieri professionali, che guidano queste aziende di credito, non avrebbero nemmeno potuto disegnare le loro strategie se non avessero avuto il consenso e, in più di un’occasione, l’aiuto concreto delle fondazioni. Sono i fatti che parlano, e dalla verifica empirica i liberali partono per confermare o correggere le loro opinioni. Se le Fondazioni Cariverona, Caritorino e Cassamarca non fossero state disposte ad allentare la presa sulle loro banche ben oltre i limiti di legge, avrebbero quotato in Borsa la holding che già avevano anziché unirsi al Credito Italiano ponendo le basi per i successi di Profumo. Se avessero temuto di diluire le loro posizioni, non avrebbero sostenuto l’operazione Hvb che ha fatto di Unicredito la prima, grande banca dei manager. Banca Intesa non sarebbe mai nata, se la Fondazione Cariplo non avesse messo in vendita l’intera azienda bancaria e Guzzetti non si fosse assunto la responsabilità di preferire come acquirente il più piccolo ma più sano Banco Ambroveneto alla più blasonata ma anche più appesantita Comit. E Intesa non sarebbe sopravvissuta come banca indipendente senza la partecipazione al suo capitale della stessa Fondazione Cariplo e della Cariparma. Lo stesso discorso vale per le quattro fondazioni del Sanpaolo Imi, che hanno saputo rinunciare all’esclusiva dei campanili ed evitare con la loro presenza che tutto finisse in mano al Banco Santander. Per il tempo necessario all’integrazione tra le due banche, le fondazioni saranno il perno dell’azionariato di Intesa-Sanpaolo. Ma è prevedibile che, quando Corrado Passera presenterà la proposta di una grande acquisizione all’estero, quella che oggi è la banca delle fondazioni diventerà anch’essa una banca dei manager. Quanti azionisti privati, che controllano vasti gruppi con il sistema delle piramidi societarie, possono dirsi egualmente disponibili a far evolvere gli equilibri di potere in modo così favorevole alla crescita, senza esservi costretti, beninteso, da problemi di bilancio? Nell’Italia priva di fondi pensione, le fondazioni bancarie sono gli investitori istituzionali reali. Per questo è giusto preoccuparsi di che cosa accadrà quando la loro attuale leadership, in genere abbastanza anziana, dovrà cedere il passo. Sarebbe stato più tempestivo farlo due anni fa, al termine del duello con il ministro Tremonti: si stendevano allora i nuovi statuti ed era il momento giusto per porre con maggior forza la questione della governance anziché continuare una battaglia frontale già persa e comunque non molto preveggente, visti i risultati di Intesa-Sanpaolo e Unicredito-Hvb. L’importante, si dice, è che la politica non ci metta le mani. Giusto: le clientele, mai. Ma con due avvertenze: 1) gli statuti di molte fondazioni già sono regolati dal principio della cooptazione di personaggi della società civile più che dallo spoil system degli enti locali; 2) i Guzzetti, i Palenzona, i De Poli e i Salza sono tutti politici che, impegnati ad amministrare risorse altrui, hanno dimostrato una visione strategica e una capacità di trovare le strade non certo inferiore a quelle di chi aveva sempre mangiato pane e finanza. Non tutti i politici fanno danni, insomma. Come non tutti i banchieri fanno utili.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …