Gian Carlo Caselli: Dalla Chiesa. Il generale che disobbedì
07 Settembre 2006
Per anni, dovendomi occupare (Giudice istruttore a Torino) di ‟Brigate rosse” e ‟Prima linea”, ho avuto l'opportunità di lavorare fianco a fianco con il generale Dalla Chiesa e con i suoi uomini. Dire che ho imparato da loro un sacco di cose è persino banale. Mi limito a ricordarne una per tutte: la capacità di mettersi in gioco direttamente, di spendersi senza risparmio, di provare sempre a governare le situazioni senza subirle.
Più volte mi è capitato di dovermi recare d'improvviso, magari in piena notte, nella caserma in cui erano custoditi (per i necessari sviluppi investigativi) i reperti rinvenuti nei covi ancora ‟caldi”. Quasi sempre trovavo il generale nel suo ufficio, intento a piantare e spostare bandierine multicolori su un'enorme carta topografica, seguendo un suo disegno d'intervento sul territorio: segno che non staccava mai e che con l'esempio sapeva motivare come pochi altri i suoi collaboratori.
Ciò premesso - ricordando anche quest'anno la strage di mafia del 3 settembre del 1982 che causò la morte del generale, della moglie Emanuela e del loro autista Domenico Russo - vorrei tracciare di Carlo Alberto Dalla Chiesa un ritratto non troppo convenzionale.
Prima di tutto occorre dire che era un carabiniere tutto d'un pezzo. Spesso amava dire che gli alamari se li sentiva cuciti sulla pelle, più che sulla divisa. Ma il rispetto della gerarchia militare non gli impediva di essere intelligentemente duttile. Quando le Br sequestrarono il giudice Sossi (1974), venne istituito un Nucleo speciale - di fatto comandato da Dalla Chiesa - con l'incarico di individuare gli autori di quello specifico delitto. Ebbene, Dalla Chiesa in un certo senso ‟disobbedì”, perché non si limitò a cercare i sequestratori. Quel che si mise a cercare erano le Br come gruppo organizzato, in forza di un’intuizione vincente ma per quei tempi rivoluzionaria (mai nessuno l'aveva fatto prima). Solo ricostruendo le caratteristiche logistiche ed operative della banda armata si sarebbero potuti ‟decifrare” i singoli delitti (sequestro Sossi compreso), altrimenti destinati a restare avulsi dal contesto che li aveva prodotti e perciò perennemente avvolti nel buio. ‟Disobbedendo”, le Br Dalla Chiesa le trovò davvero e le disarticolò in profondità, contribuendo in modo determinante alla cattura e condanna dei ‟capi storici”, responsabili anche del sequestro Sossi.
Carabiniere a 24 carati, professionista della repressione nel rispetto delle regole, sapeva anche che polizia e magistratura - da sole - contro il crimine organizzato non possono tutto. Aveva constatato, a Torino, come l'inizio del declino dell'eversione brigatista fosse coinciso con la stagione delle assemblee che in progresso di tempo (spazzando via ambiguità o contiguità scaturenti dalla miope, se non peggio, teorizzazione dei ‟compagni che sbagliano”) aveva contribuito al decisivo isolamento politico dei terroristi. Sapeva bene, quindi, quanto sia fondamentale coinvolgere la società civile, per renderla consapevole dei terribili guasti che la violenza organizzata produce sulla qualità della vita di ciascun cittadino. Non è un caso, allora, che il carabiniere - una volta nominato superprefetto antimafia a Palermo - abbia impiegato gran parte dei 100 giorni trascorsi in questa città ad incontrare studenti (dalle elementari all'università), familiari di giovani con problemi di tossicodipendenza e maestranze dei cantieri navali. E si spiega anche come sia stato non un sociologo ma proprio quel carabiniere tutto d'un pezzo, uno ‟sbirro” nato (uso il termine, ovviamente, con assoluto rispetto), a lasciarci in eredità un insegnamento che costituisce ancora oggi una pietra miliare nella lotta alla mafia. Quello secondo cui per sconfiggere la mafia occorre anche ‟un abile, paziente lavoro psicologico per sottrarle il suo potere”. Perché ‟gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti”. Diritti da assicurare, se si vuole ‟togliere potere alla mafia” e fare ‟dei suoi dipendenti i nostri alleati” (così in un'intervista resa dal gen. Dalla Chiesa a Giorgio Bocca pochi giorni prima del suo assassinio).
Nello stesso tempo, nessuno come Dalla Chiesa sapeva essere ‟nei secoli fedele” (alla legge, allo stato, al dovere, all'interesse pubblico...). Nel senso del rifiuto di ogni compromesso, di ogni tentazione all'accomodamento e al quieto vivere, anche quando si dovessero effettuare scelte o percorrere strade non proprio gradite ‟in alto loco”. Furono i suoi uomini, ad esempio, che arrestarono in Francia il figlio di un potente uomo politico dell'epoca, rifugiatosi all'estero non appena il ‟pentito” Roberto Sandalo cominciò a picconare ‟Prima linea”, rivelando identità e ruoli di tutti i militanti che conosceva, fra cui il ‟comandante Alberto” (nome di battaglia di Marco Donat Cattin).
Nel diario di Dalla Chiesa si legge che fu lui personalmente - in occasione dell'insediamento come prefetto di Palermo - ad ammonire Giulio Andreotti che non avrebbe avuto riguardi per gli uomini della sua corrente operanti in Sicilia, già allora ‟chiacchieratissimi” per i loro rapporti con mafia e dintorni. Coloro che hanno lo stomaco forte e riescono a digerire tutto o quasi in tema di rapporti fra mafia e politica dovrebbero avere il buon gusto - almeno oggi - di astenersi dal celebrare il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Sarebbero voci stonate, decisamente incompatibili con la grandezza dell'uomo caduto a Palermo 24 anni fa e con il rispetto dovutogli.
Più volte mi è capitato di dovermi recare d'improvviso, magari in piena notte, nella caserma in cui erano custoditi (per i necessari sviluppi investigativi) i reperti rinvenuti nei covi ancora ‟caldi”. Quasi sempre trovavo il generale nel suo ufficio, intento a piantare e spostare bandierine multicolori su un'enorme carta topografica, seguendo un suo disegno d'intervento sul territorio: segno che non staccava mai e che con l'esempio sapeva motivare come pochi altri i suoi collaboratori.
Ciò premesso - ricordando anche quest'anno la strage di mafia del 3 settembre del 1982 che causò la morte del generale, della moglie Emanuela e del loro autista Domenico Russo - vorrei tracciare di Carlo Alberto Dalla Chiesa un ritratto non troppo convenzionale.
Prima di tutto occorre dire che era un carabiniere tutto d'un pezzo. Spesso amava dire che gli alamari se li sentiva cuciti sulla pelle, più che sulla divisa. Ma il rispetto della gerarchia militare non gli impediva di essere intelligentemente duttile. Quando le Br sequestrarono il giudice Sossi (1974), venne istituito un Nucleo speciale - di fatto comandato da Dalla Chiesa - con l'incarico di individuare gli autori di quello specifico delitto. Ebbene, Dalla Chiesa in un certo senso ‟disobbedì”, perché non si limitò a cercare i sequestratori. Quel che si mise a cercare erano le Br come gruppo organizzato, in forza di un’intuizione vincente ma per quei tempi rivoluzionaria (mai nessuno l'aveva fatto prima). Solo ricostruendo le caratteristiche logistiche ed operative della banda armata si sarebbero potuti ‟decifrare” i singoli delitti (sequestro Sossi compreso), altrimenti destinati a restare avulsi dal contesto che li aveva prodotti e perciò perennemente avvolti nel buio. ‟Disobbedendo”, le Br Dalla Chiesa le trovò davvero e le disarticolò in profondità, contribuendo in modo determinante alla cattura e condanna dei ‟capi storici”, responsabili anche del sequestro Sossi.
Carabiniere a 24 carati, professionista della repressione nel rispetto delle regole, sapeva anche che polizia e magistratura - da sole - contro il crimine organizzato non possono tutto. Aveva constatato, a Torino, come l'inizio del declino dell'eversione brigatista fosse coinciso con la stagione delle assemblee che in progresso di tempo (spazzando via ambiguità o contiguità scaturenti dalla miope, se non peggio, teorizzazione dei ‟compagni che sbagliano”) aveva contribuito al decisivo isolamento politico dei terroristi. Sapeva bene, quindi, quanto sia fondamentale coinvolgere la società civile, per renderla consapevole dei terribili guasti che la violenza organizzata produce sulla qualità della vita di ciascun cittadino. Non è un caso, allora, che il carabiniere - una volta nominato superprefetto antimafia a Palermo - abbia impiegato gran parte dei 100 giorni trascorsi in questa città ad incontrare studenti (dalle elementari all'università), familiari di giovani con problemi di tossicodipendenza e maestranze dei cantieri navali. E si spiega anche come sia stato non un sociologo ma proprio quel carabiniere tutto d'un pezzo, uno ‟sbirro” nato (uso il termine, ovviamente, con assoluto rispetto), a lasciarci in eredità un insegnamento che costituisce ancora oggi una pietra miliare nella lotta alla mafia. Quello secondo cui per sconfiggere la mafia occorre anche ‟un abile, paziente lavoro psicologico per sottrarle il suo potere”. Perché ‟gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti”. Diritti da assicurare, se si vuole ‟togliere potere alla mafia” e fare ‟dei suoi dipendenti i nostri alleati” (così in un'intervista resa dal gen. Dalla Chiesa a Giorgio Bocca pochi giorni prima del suo assassinio).
Nello stesso tempo, nessuno come Dalla Chiesa sapeva essere ‟nei secoli fedele” (alla legge, allo stato, al dovere, all'interesse pubblico...). Nel senso del rifiuto di ogni compromesso, di ogni tentazione all'accomodamento e al quieto vivere, anche quando si dovessero effettuare scelte o percorrere strade non proprio gradite ‟in alto loco”. Furono i suoi uomini, ad esempio, che arrestarono in Francia il figlio di un potente uomo politico dell'epoca, rifugiatosi all'estero non appena il ‟pentito” Roberto Sandalo cominciò a picconare ‟Prima linea”, rivelando identità e ruoli di tutti i militanti che conosceva, fra cui il ‟comandante Alberto” (nome di battaglia di Marco Donat Cattin).
Nel diario di Dalla Chiesa si legge che fu lui personalmente - in occasione dell'insediamento come prefetto di Palermo - ad ammonire Giulio Andreotti che non avrebbe avuto riguardi per gli uomini della sua corrente operanti in Sicilia, già allora ‟chiacchieratissimi” per i loro rapporti con mafia e dintorni. Coloro che hanno lo stomaco forte e riescono a digerire tutto o quasi in tema di rapporti fra mafia e politica dovrebbero avere il buon gusto - almeno oggi - di astenersi dal celebrare il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Sarebbero voci stonate, decisamente incompatibili con la grandezza dell'uomo caduto a Palermo 24 anni fa e con il rispetto dovutogli.
Gian Carlo Caselli
Gian Carlo Caselli (Alessandria, 1939) è stato giudice istruttore a Torino dove, per un decennio, ha condotto le inchieste sulle Brigate rosse e Prima linea. Dal 1993 al 1999 ha …