Renato Barilli: Giuseppe Penone, la natura ci (ri)guarda
07 Settembre 2006
L’Arte povera è senza dubbio il maggior contributo che l’Italia ha dato alla cultura artistica internazionale in rapporto al clima del ’68, chi scrive queste righe lo ha sempre riconosciuto, fin dagli inizi, e tuttavia il dovere del critico è di non aderire a una sorta di conventio ad excludendum, ovvero, per essere inseriti nel numero di quelli che contano non occorre necessariamente esibire la tessera di appartenenza a quel club ristretto, ci sono stati tanti altri artisti eccellenti protagonisti di quella congiuntura, che pure una simile adesione non la possono vantare, si pensi a Eliseo Mattiacci, Luca Patella, Gino De Dominicis, Vettor Pisani, Franco Vaccari, Claudio Parmiggiani, Vincenzo Agnetti, per tacere di altri. Tanto che io personalmente, in rassegne di taglio storico dedicate all’Arte povera, mi sono sempre premurato di aggiungere ‟i dintorni”, cioè appunto i vari fenomeni e personaggi che hanno operato in modi similari.
Però questo mio fervorino, nell’occasione, è decisamente paradossale, dato che mi appresto a tessere l’elogio di uno dei membri più fedeli e costanti di quel gruppo, che oltretutto ne è anche il più giovane, essendo nato nel 1947: Giuseppe Penone, mentre i compagni hanno visto la luce in genere attorno al ’40. Ora il bellissimo Filatoio di Caraglio, nei pressi di Cuneo, sua città natale, gli dedica una mostra precisa e circostanziata in cui se ne ammirano solo cinque opere, ma perfettamente riassuntive delle sue varie modalità di produzione (a cura di Andrea Busto, fino all’8 ottobre, cat. Marcovaldo). Queste opere sono accompagnate ciascuna da un testo di altrettanti critici, tra cui tre italiani, Giorgio Verzotti, Franco Fanelli e Marco Meneguzzo, più due francesi, Didier Semin e Fabien Faure. Al confronto, gli approcci dei nostri esponenti appaiono più chiari e diretti, mentre i loro colleghi d’oltralpe, forse intimiditi da una certa distanza dal loro oggetto, hanno sentito il bisogno di tuffarsi in riflessioni più gremite e tortuose. Penone, forse proprio perché ultimo arrivato nella compagine poverista, ne coglie alla perfezione l’anima profonda, a lui si addicono in massimo grado le riflessioni con cui Germano Celant ha aperto il manifesto fondatore del movimento, quando ha parlato di un’insurrezione delle forze animali e vegetali, fino a quel momento disprezzate dall’arte, o fatte filtrare solo attraverso un processo di imitazione speculare che finiva per ‟umanizzarle” troppo. Mentre ora tocca a loro assumere l’iniziativa, come appunto succede nelle varie proposte di Penone: che però non per questo rinuncia alle prerogative dell’essere umano, e anzi ingaggia una bellissima tenzone tra le forze della natura e la presenza antropologica, in una dinamica partita a due con gioco di scambi e di sopraffazione reciproche. Per esempio, in una sua primissima installazione la componente umana interveniva con una stretta possente, come armando la mano con una sorta di guanto metallico che pretendeva di impedire la crescita di un arbusto. Oppure, quasi con la crudeltà di un chirurgo, il nostro artista, nella sua operazione più celebre, ci appare intento a vivisezionare il tronco di un albero sfogliando via via gli anelli concentrici della crescita annuale, fino a far rispuntare in esso le forme esili degli inizi. D’altra parte Penone è ben consapevole che la natura, con le sue efflorescenze e ramificazioni, è in noi, la nostra pelle ha la stessa conformazione dell’epitelio di fiori e piante, come l’artista ha dimostrato iniettandosi nelle vene un liquido colorante. Oppure, in altra occasione, ha redatto una mappa in scala reale di tutto il suo corpo, da cui risultano molto bene le differenze tra i vari tessuti, dei capelli, dei tratti cartilaginosi o adiposi. Altro suo famoso intervento è stato quello di assumere delle lenti a contatto specchianti, cosicché è l’intero universo che si riflette nei nostri occhi, rendendoci simili a una docile superficie speculare. In questo caso non c’è accesso all’interno, la nostra personalità si rovescia totalmente sull’ambiente. Dobbiamo allora concludere che si tratta di una ritirata dell’artefice, di una sua rinuncia rispetto ai compiti tradizionali? Non del tutto, Penone sa anche apprezzare i pregi dei materiali classici della scultura, attraverso abili riversamenti, per cui l’intrico della pelle va a stamparsi su una lastra marmorea, o il frusciare delle foglie dell’alloro si irrigidisce in scaglie bronzee: ma perché il bronzo, a sua volta, è suscettibile di subire una stagionatura, attraverso la cosiddetta patina, col che rientra nell’economia di tutti i corpi naturali.
Le cinque opere in mostra a Caraglio rispondono benissimo a questo identikit, confermando le impostazioni di base ma arricchendole di utili variazioni sul motivo. C’è appunto la pelle marmorizzata, oppure equiparata a un ammasso di foglie, c’è l’immancabile desquamazione di un tronco così da ricondurlo ai suoi primordi, oppure in un altro caso viene estratto un tassello dall’ammasso centrale, quasi per procedere a una sua clonazione. O infine in un’installazione di grandi dimensioni una serie di pianticelle di varia altezza vengono infilzate dalla ‟propagazione dello sguardo”, cioè da una sorta di dardo partito dalla vigile presenza umana, ma affidato alla trasparenza e quasi invisibilità del cristallo. L’uomo lancia il sasso ma nasconde la mano.
Però questo mio fervorino, nell’occasione, è decisamente paradossale, dato che mi appresto a tessere l’elogio di uno dei membri più fedeli e costanti di quel gruppo, che oltretutto ne è anche il più giovane, essendo nato nel 1947: Giuseppe Penone, mentre i compagni hanno visto la luce in genere attorno al ’40. Ora il bellissimo Filatoio di Caraglio, nei pressi di Cuneo, sua città natale, gli dedica una mostra precisa e circostanziata in cui se ne ammirano solo cinque opere, ma perfettamente riassuntive delle sue varie modalità di produzione (a cura di Andrea Busto, fino all’8 ottobre, cat. Marcovaldo). Queste opere sono accompagnate ciascuna da un testo di altrettanti critici, tra cui tre italiani, Giorgio Verzotti, Franco Fanelli e Marco Meneguzzo, più due francesi, Didier Semin e Fabien Faure. Al confronto, gli approcci dei nostri esponenti appaiono più chiari e diretti, mentre i loro colleghi d’oltralpe, forse intimiditi da una certa distanza dal loro oggetto, hanno sentito il bisogno di tuffarsi in riflessioni più gremite e tortuose. Penone, forse proprio perché ultimo arrivato nella compagine poverista, ne coglie alla perfezione l’anima profonda, a lui si addicono in massimo grado le riflessioni con cui Germano Celant ha aperto il manifesto fondatore del movimento, quando ha parlato di un’insurrezione delle forze animali e vegetali, fino a quel momento disprezzate dall’arte, o fatte filtrare solo attraverso un processo di imitazione speculare che finiva per ‟umanizzarle” troppo. Mentre ora tocca a loro assumere l’iniziativa, come appunto succede nelle varie proposte di Penone: che però non per questo rinuncia alle prerogative dell’essere umano, e anzi ingaggia una bellissima tenzone tra le forze della natura e la presenza antropologica, in una dinamica partita a due con gioco di scambi e di sopraffazione reciproche. Per esempio, in una sua primissima installazione la componente umana interveniva con una stretta possente, come armando la mano con una sorta di guanto metallico che pretendeva di impedire la crescita di un arbusto. Oppure, quasi con la crudeltà di un chirurgo, il nostro artista, nella sua operazione più celebre, ci appare intento a vivisezionare il tronco di un albero sfogliando via via gli anelli concentrici della crescita annuale, fino a far rispuntare in esso le forme esili degli inizi. D’altra parte Penone è ben consapevole che la natura, con le sue efflorescenze e ramificazioni, è in noi, la nostra pelle ha la stessa conformazione dell’epitelio di fiori e piante, come l’artista ha dimostrato iniettandosi nelle vene un liquido colorante. Oppure, in altra occasione, ha redatto una mappa in scala reale di tutto il suo corpo, da cui risultano molto bene le differenze tra i vari tessuti, dei capelli, dei tratti cartilaginosi o adiposi. Altro suo famoso intervento è stato quello di assumere delle lenti a contatto specchianti, cosicché è l’intero universo che si riflette nei nostri occhi, rendendoci simili a una docile superficie speculare. In questo caso non c’è accesso all’interno, la nostra personalità si rovescia totalmente sull’ambiente. Dobbiamo allora concludere che si tratta di una ritirata dell’artefice, di una sua rinuncia rispetto ai compiti tradizionali? Non del tutto, Penone sa anche apprezzare i pregi dei materiali classici della scultura, attraverso abili riversamenti, per cui l’intrico della pelle va a stamparsi su una lastra marmorea, o il frusciare delle foglie dell’alloro si irrigidisce in scaglie bronzee: ma perché il bronzo, a sua volta, è suscettibile di subire una stagionatura, attraverso la cosiddetta patina, col che rientra nell’economia di tutti i corpi naturali.
Le cinque opere in mostra a Caraglio rispondono benissimo a questo identikit, confermando le impostazioni di base ma arricchendole di utili variazioni sul motivo. C’è appunto la pelle marmorizzata, oppure equiparata a un ammasso di foglie, c’è l’immancabile desquamazione di un tronco così da ricondurlo ai suoi primordi, oppure in un altro caso viene estratto un tassello dall’ammasso centrale, quasi per procedere a una sua clonazione. O infine in un’installazione di grandi dimensioni una serie di pianticelle di varia altezza vengono infilzate dalla ‟propagazione dello sguardo”, cioè da una sorta di dardo partito dalla vigile presenza umana, ma affidato alla trasparenza e quasi invisibilità del cristallo. L’uomo lancia il sasso ma nasconde la mano.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …