Renato Barilli: La corsa al Paradiso di Tintoretto & Co.

19 Settembre 2006
Il Palazzo Ducale di Venezia è senza dubbio uno degli edifici più prestigiosi tra quelli che il nostro Paese può vantare, ma proprio per questa ragione paga lo scotto quotidiano di vedersi percorso da schiere di turisti sbalorditi e attoniti. C’è da augurarsi che in questi giorni i soliti visitatori di massa abbiano occhi per una raffinatissima mostra che concerne l’ombelico stesso del Palazzo, la Sala del Maggior Consiglio, dominata, sulla parete di fondo, da una tela immensa intitolata al Paradiso, opera dell’anziano Tintoretto con l’aiuto del figlio Domenico. La mostra in questione riguarda la gara che si tenne attorno al 1581 per rimpiazzare un’opera precedente, eseguita nel tardo Trecento, da un giottesco di complemento, il Guariento, che già aveva affrontato il tema poi ripetuto dai successori, l’Incoronazione della Vergine, detta anche il Paradiso. Un rovinoso incendio, nel 1577, aveva guastato quell’affresco, di cui si conservano frammenti, ma non è da considerarsi una grave perdita, in quanto si sa quale flessione di qualità segnò appunto la seconda metà del XIV° secolo, rispetto all’alta creatività giottesca; siamo ancora a chiederci quali traumi nella vita pubblica avessero provocato quel ristagno, così da permettere poi il balzo in avanti degli homines novi del primo Quattrocento, con Masaccio in testa. Per quanto affezionati a quel dipinto pur non eccelso, i Veneziani dovettero indire un concorso per dargli una degna sostituzione, e appunto la mostra in questione, prima svoltasi al Louvre, poi al Thyssen-Bornemisza di Madrid, e ora giunta nella sua sede naturale (a cura di Jean Habert e Lucia Marabini, fino al 3 dicembre, cat. 5continents) ha il merito di presentare i bozzetti delle opere concorrenti. Che ovviamente coinvolgevano il meglio di cui allora la Serenissima potesse vantarsi, ed era grande cosa, dato che in quegli anni Venezia si poteva considerare la capitale della pittura non solo italiana ma europea, in quanto Firenze aveva subito un calo vistoso, dopo la morte di Michelangelo e dei maggiori Manieristi, il che si poteva ripetere anche per Roma. A Bologna, i Carracci stavano appena riscaldandosi i muscoli. Sulla Laguna, invece, il Tintoretto (1519-94) continuava a incantare tutti con la sua famosa rapidità di esecuzione e irruenza di invenzione, sfidato però da Paolo Veronese (1528-88), che aveva raccolto il testimone da Tiziano e manteneva un passo assai più compassato e classicizzante, unito però allo splendore del tonalismo cromatico. C’era anche un terzo grande, associato al Tintoretto nel gusto manierista, Jacopo Bassano, ma ormai troppo anziano e prossimo al decesso, sicché lasciava spazio a uno dei figli, Francesco (1549-1592). E c’era pure Palma il Giovane (1544-1628), a recitare un ruolo certo non indegno.
La giuria, non avendo il coraggio di una scelta univoca, ricorse alla tattica un po’ ipocrita dell’ex-aequo, premiando le proposte del Veronese e di Francesco Bassano pressoché opposte: la tela del Veronese si muove nel segno della paratassi, allinea cioè lunghe file di santi e di angeli, sotto il motivo dell’Incoronazione che il Figlio impone alla madre. Veronese, insomma, si conferma quale grande «moderno», razionalista, degno coetaneo del Palladio, risolvendo la scena gremita con una sfilza di assi cartesiani, irrorati da un colore albuminoso, lunare. Viceversa il Bassano, memore delle soluzioni contorte del Manierismo, distribuisce i cori angelici a ventaglio, come se posassero sulle gradinate di un’arena, e li inonda di un colore cupo, terroso. La collaborazione tra i due sarebbe stata assai difficile, ma ci pensò il caso a risolvere la matassa intricata, in quanto il Veronese doveva morire di lì a poco, e il Bassano entrava in una fase depressiva, fino al suicidio. Palma il Giovane non era mai stato in gioco, nonostante che il suo progetto risulti del tutto onorevole, con ammassi di figure che si stipano ai due bordi dello spazio, rispettando perfettamente il vano delle porte d’ingresso. E dunque, ancora una volta, a vincere fu la premiata ditta di Tintoretto e famiglia. Ma non abbiamo alcuna ragione di rammaricarcene, anzi, riconosciamolo, il Robusti era predestinato a firmare la soluzione finale, dato che già in precedenza aveva steso un bozzetto straordinario sul tema, ora conservato al Louvre, dove la Madonna e il Figlio sono sovrastati da un’ellisse turbinosa e dinamica, fosforescente, incisiva, e le figure degli ordini inferiori si allungano come ginnasti in elevazione, con quel verticalismo estremo che proprio in quegli anni il Veneziano stava insegnando al Greco per eccellenza, poi ritiratosi a Toledo in Spagna per portare quello stilema a splendidi esiti. A dire il vero, per quel concorso il Robusti aveva mutato la chiave di base, passando da un allungamento quasi anoressico a un arricciamento, i corpi cioè si erano imbozzolati su se stessi, come vermi portati alla luce dalla rimozione di un sasso, determinando così tanti nuclei sferoidali, disseminati nello spazio. Ed è da qui che parte la grande tela ancor oggi installata, con pesante intervento del figlio a opacizzare i colori, a rendere un po’ stereotipato il moltiplicarsi dei gruppi, ma con esito pur sempre dinamico e di grande impatto.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …