Massimo Mucchetti: Il rebus Malpensa e gli aeroportini

20 Settembre 2006
La protesta dell’associazione delle compagnie aeree contro le disfunzioni nella consegna dei bagagli a Malpensa è una febbre estiva, dovuta in larga misura all’impennata del traffico durante le vacanze. Le compagnie devono risarcire i passeggeri in prima battuta, e poi cercano di rivalersi sui gestori degli scali. Le une accusano le manchevolezze dei servizi di handling, gli altri i ritardi dei voli in transito, la metà del traffico. La deregolazione del trasporto aereo e il dilagare dei collegamenti low cost hanno accentuato la generale compressione delle spese con grandi vantaggi ma anche con problemi più o meno universalmente diffusi. In realtà, questa diatriba di stagione si alimenta della serpeggiante delusione per un aeroporto intercontinentale che è stato pensato come hub, ma non riesce a prendere il passo di Francoforte, Parigi, Londra e Amsterdam e a diventare il centro di raccolta e di rilancio del traffico aereo dell’Italia settentrionale verso le grandi rotte del business. Diversamente dall’Alitalia, che conserva solo una parte delle posizioni dominanti d’un tempo, Malpensa rimane un monopolio in pieno vigore, come tutti gli altri scali, grandi e piccoli. E dunque guadagna. La Sea, la società degli aeroporti milanesi, ha chiuso il 2005 con un profitto di 45 milioni. Non di meno Malpensa rappresenta un’occasione mancata. Ne è responsabile il Comune di Milano, principale azionista da sempre incerto se privatizzare, e come e con chi. Ma ancor più ne sono stati responsabili i governi che hanno finanziato la Grande Malpensa senza risolvere il dualismo con Fiumicino. Dai due maggiori scali italiani transitano 50 milioni di passeggeri l’anno, più o meno come dal Charles de Gaulle, ma quello di Parigi è un hub, Fiumicino e Malpensa non lo sono e, probabilmente, non lo saranno mai. Questa posizione così poco conveniente deriva dalla fallimentare gestione dell’Alitalia, che non ha mai scelto Malpensa per non scontentare la sua base romana, protetta da partiti e sindacati, e dalla più generale mancanza di una programmazione degli scali, che ha favorito la fioritura degli aeroporti di provincia ormai arrivati a un numero doppio rispetto alla Spagna. Intendiamoci, gli aeroportini stanno quasi sempre a galla, alcuni rendono bene. Si tratta di aziendine in monopolio naturale che, costruito lo scalo con finanziamenti pubblici, portano quote di ricchezza modeste ma reali alle comunità locali. Nell’insieme, tuttavia, stanno determinando il tracollo l’industria nazionale del trasporto aereo. In tutta Europa, questa industria si basa sulla sinergia tra l’hub e la compagnia di riferimento. L’Italia è già ridotta al rango minore di bacino, ricco, per le compagnie e gli hub altrui. La privatizzazione degli scali avrebbe forse potuto invertire la tendenza se avesse messo capo a un soggetto capace di fare ordine comprando la Aeroporti di Roma e la Sea. Ma così non è stato. Ognuno si è mosso per conto suo. Roma è ora in mano a Benetton, Clessidra e Romiti, Milano è rimasta al Comune. E Alitalia è di nuovo in crisi. Se si accaserà con Air France, vorrà dire che Fiumicino avrà la sua chance. La capitale sarà soddisfatta. E forse anche per Milano, a lungo andare, sarà meglio così. Il rapporto ombelicale con la compagnia di bandiera ha offerto fin qui una garanzia di ricavi e di margini alla Sea: abbastanza per pagare stipendi e appalti, non abbastanza per crescere in modo proporzionale all’investimento. Superare questo vincolo non sarebbe indolore: comporterebbe un certo numero di bilanci risicati. Ma potrebbe offrire alla società lo stimolo, dettato dalla necessità, per costruire una nuova rete di collegamenti e magari offrirsi come scalo europeo di riferimento per le compagnie cinesi o, comunque, dell’Estremo oriente. Ma nessun amministratore della Sea oserà mai un simile passo, che condizionerebbe anche gli assetti azionari del futuro, fino a quando non si scioglierà il nodo dell’Alitalia.

Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …