Giorgio Bocca: Il "mal dAfrica" che contagia Fini
27 Settembre 2006
Il Mussolini crepuscolare di Salò lo chiamava ‟il mal d’Africa”, la nostalgia per le colonie che si sarebbe diffusa nell’Italia del dopo fascismo, democratica ma ancora disposta a suggestioni imperiali. E un po’ di ‟mal d’Africa” sembra sia rimasto in Gianfranco Fini esitante fra il ‟fascismo male supremo” e quello che ‟qualcosa di buono lo ha pur fatto nelle colonie”.
Ma è solo questione di intendersi: a chi lo faceva qualcosa di buono? Non al paese Italia, per cui le colonie arrivate troppo tardi quando il colonialismo era già in liquidazione in tutti i continenti furono un pessimo affare economico e politico, ma certamente per alcuni ceti privilegiati dal fascismo, i militari, i costruttori di opere pubbliche, i dannunziani di ogni tipo che sognavano imperi impossibili, gli spostati cui il regime dava impieghi e denaro. Economicamente e politicamente le colonie furono per il paese una perdita secca e si stenta a credere che Mussolini, politico non privo di talenti, abbia fortemente voluto cacciare se stesso e l’Italia nelle contraddizioni e nelle miserie di quel tardo colonialismo.
La Libia era ‟lo scatolone di sabbia” in cui c’era una sola ricchezza reale, il petrolio, accertato dal geologo Desio, ma in cui il nostro ente pubblico Agip si rifiutò di credere o che pensò superiore alle sue forze. E nello scatolone di sabbia volemmo compiere la pazzia della bonifica contadina, i centomila contadini poveri del Veneto portati fra inni e fanfare a coltivare il deserto. E mi capitò di vederli ancora negli anni Cinquanta nelle case coloniche identiche a quelle di Littoria o del Ferrarese in attesa di essere cacciati quando mancavano pochi anni alla grande fuga dalle campagne italiane, all’esodo dalle colline e dalle montagne verso le fabbriche cittadine di milioni di contadini. La retorica fascista chiedeva agli italiani di superare gli ostacoli ‟gettando il cuore al di là”, immagine lirica ma velleitaria. Ma quella politica immaginifica, fatta di sogni più che di realtà doveva finire come è finita, nella sconfitta. Che senso aveva inseguire il mito del ‟mare nostrum” e poi subire l’alleanza con il nazismo e lo scontro impari con le grandi potenze marinare?
Dopo la conquista, generazioni di italiani attesero l’arrivo dei tesori dell’impero. Ma arrivò solo il karkadè, una specie di tè acidulo. L’impero era povero, l’unica zona africana senza ricchezze naturali. Eravamo andati alla sua avventurosa conquista attraverso il canale di Suez in mani inglesi senza avere fatto delle ricerche serie sulle opportunità economiche di quei territori vastissimi. E dovemmo spendere moltissimo per dotarli di strade e del minimo di strutture. E fu la fortuna non dell’Italia ma dei padroncini di camion che lasciarono la nostra provincia per andare a far soldi nell’altipiano etiopico, fu la fortuna delle imprese di costruzioni e dei militari che in colonia prendevano uno stipendio doppio o triplo. Quel miracolo di un paese povero che manteneva un esercito di ‟otto milioni di baionette” aveva una spiegazione semplice: lo mantenevano i milioni di italiani che cantavano ‟se potessi avere / mille lire al mese”, gli italiani delle case di ringhiera che non sapevano cosa fosse un bagno e che quando finalmente lo ebbero lo usarono per piantarci i pomodori e l’insalata.
Dice Fini che qualcosa di buono il nostro colonialismo lo ha fatto. Se vuol dire che per ragioni di orgoglio, per mania di grandezza, per ‟mal d’Africa” il male dei poveracci che nelle colonie vivevano da padroni e da ricchi, dice bene, il nostro colonialismo ha dato più di quanto ha preso, ma con un risultato finale catastrofico, senza lasciarsi alle spalle né la riconoscenza né la stima dei beneficati. Ho viaggiato nelle nostre ex colonie ma non ho trovato rimpianto per le nostre opere buone. Il sentimento dei nostri ex colonizzati è piuttosto di astio, non ci riconoscono la parte dei civilizzatori, ricordano piuttosto la nostra ipocrisia di ‟italiani buoni” che però tenevano per loro un campo di concentramento alle Tremiti e passavano per le armi migliaia di indigeni se c’era un attentato al maresciallo Graziani. Persino a Rodi e nel Dodecanneso, dove il nostro colonialismo si era ridotto al contrabbando di sigarette, ho trovato più astio che buon ricordo. E la ragione è chiara: non eravamo fatti per fare i colonialisti, non eravamo razzisti come gli inglesi o sciovinisti come i francesi, oscillavamo fra la bonarietà contadina e l’alterigia piccolo borghese. Il Duce, che dei rapporti umani se ne intendeva, andava in bestia se gli raccontavano della nostra bontà di animo, della nostra bonarietà e la stampa di regime scambiava per alte qualità le nostre debolezze. Era una stampa servile ed encomiastica. Il giorno della sfilata trionfale di Mussolini a Tripoli due nostri inviati speciali vi assistevano dalla tribuna d’onore. Uno all’improvviso tirò fuori di tasca un taccuino e vi scrisse qualcosa, l’altro si protese e cercò di leggere. C’era scritto un solo aggettivo: immenso.
Ma è solo questione di intendersi: a chi lo faceva qualcosa di buono? Non al paese Italia, per cui le colonie arrivate troppo tardi quando il colonialismo era già in liquidazione in tutti i continenti furono un pessimo affare economico e politico, ma certamente per alcuni ceti privilegiati dal fascismo, i militari, i costruttori di opere pubbliche, i dannunziani di ogni tipo che sognavano imperi impossibili, gli spostati cui il regime dava impieghi e denaro. Economicamente e politicamente le colonie furono per il paese una perdita secca e si stenta a credere che Mussolini, politico non privo di talenti, abbia fortemente voluto cacciare se stesso e l’Italia nelle contraddizioni e nelle miserie di quel tardo colonialismo.
La Libia era ‟lo scatolone di sabbia” in cui c’era una sola ricchezza reale, il petrolio, accertato dal geologo Desio, ma in cui il nostro ente pubblico Agip si rifiutò di credere o che pensò superiore alle sue forze. E nello scatolone di sabbia volemmo compiere la pazzia della bonifica contadina, i centomila contadini poveri del Veneto portati fra inni e fanfare a coltivare il deserto. E mi capitò di vederli ancora negli anni Cinquanta nelle case coloniche identiche a quelle di Littoria o del Ferrarese in attesa di essere cacciati quando mancavano pochi anni alla grande fuga dalle campagne italiane, all’esodo dalle colline e dalle montagne verso le fabbriche cittadine di milioni di contadini. La retorica fascista chiedeva agli italiani di superare gli ostacoli ‟gettando il cuore al di là”, immagine lirica ma velleitaria. Ma quella politica immaginifica, fatta di sogni più che di realtà doveva finire come è finita, nella sconfitta. Che senso aveva inseguire il mito del ‟mare nostrum” e poi subire l’alleanza con il nazismo e lo scontro impari con le grandi potenze marinare?
Dopo la conquista, generazioni di italiani attesero l’arrivo dei tesori dell’impero. Ma arrivò solo il karkadè, una specie di tè acidulo. L’impero era povero, l’unica zona africana senza ricchezze naturali. Eravamo andati alla sua avventurosa conquista attraverso il canale di Suez in mani inglesi senza avere fatto delle ricerche serie sulle opportunità economiche di quei territori vastissimi. E dovemmo spendere moltissimo per dotarli di strade e del minimo di strutture. E fu la fortuna non dell’Italia ma dei padroncini di camion che lasciarono la nostra provincia per andare a far soldi nell’altipiano etiopico, fu la fortuna delle imprese di costruzioni e dei militari che in colonia prendevano uno stipendio doppio o triplo. Quel miracolo di un paese povero che manteneva un esercito di ‟otto milioni di baionette” aveva una spiegazione semplice: lo mantenevano i milioni di italiani che cantavano ‟se potessi avere / mille lire al mese”, gli italiani delle case di ringhiera che non sapevano cosa fosse un bagno e che quando finalmente lo ebbero lo usarono per piantarci i pomodori e l’insalata.
Dice Fini che qualcosa di buono il nostro colonialismo lo ha fatto. Se vuol dire che per ragioni di orgoglio, per mania di grandezza, per ‟mal d’Africa” il male dei poveracci che nelle colonie vivevano da padroni e da ricchi, dice bene, il nostro colonialismo ha dato più di quanto ha preso, ma con un risultato finale catastrofico, senza lasciarsi alle spalle né la riconoscenza né la stima dei beneficati. Ho viaggiato nelle nostre ex colonie ma non ho trovato rimpianto per le nostre opere buone. Il sentimento dei nostri ex colonizzati è piuttosto di astio, non ci riconoscono la parte dei civilizzatori, ricordano piuttosto la nostra ipocrisia di ‟italiani buoni” che però tenevano per loro un campo di concentramento alle Tremiti e passavano per le armi migliaia di indigeni se c’era un attentato al maresciallo Graziani. Persino a Rodi e nel Dodecanneso, dove il nostro colonialismo si era ridotto al contrabbando di sigarette, ho trovato più astio che buon ricordo. E la ragione è chiara: non eravamo fatti per fare i colonialisti, non eravamo razzisti come gli inglesi o sciovinisti come i francesi, oscillavamo fra la bonarietà contadina e l’alterigia piccolo borghese. Il Duce, che dei rapporti umani se ne intendeva, andava in bestia se gli raccontavano della nostra bontà di animo, della nostra bonarietà e la stampa di regime scambiava per alte qualità le nostre debolezze. Era una stampa servile ed encomiastica. Il giorno della sfilata trionfale di Mussolini a Tripoli due nostri inviati speciali vi assistevano dalla tribuna d’onore. Uno all’improvviso tirò fuori di tasca un taccuino e vi scrisse qualcosa, l’altro si protese e cercò di leggere. C’era scritto un solo aggettivo: immenso.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …