Renato Barilli: Aldo Spoldi. Un burattinaio nella tromba delle scale

04 Dicembre 2006
In certi momenti di particolare vivacità creativa, caratterizzati dall’emergere di numerosi talenti, si produce un fenomeno increscioso, qualcuno ha paura di una situazione così animata e decide di ‟calmierarla” operando degli sfoltimenti, ovvero procedendo a scegliere dei ‟primi della classe”, pochi campioni, scartando gli altri, ritenuti di seconda fila. È comprensibile che adottino una strategia del genere i mercanti d’arte, per tenere alti i prezzi dei pochi campioni ‟salvati” e fare il vuoto attorno a loro, ma un analogo atteggiamento non è ammissibile da parte dei critici, che viceversa hanno il dovere di tutelare tutti gli ‟aventi diritto”, coloro che recano qualche valido apporto alla completezza di una situazione globale. Questo fenomeno deplorevole si è verificato nel periodo che va dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso fino alla metà del decennio successivo, una fase che mostra una straordinaria somiglianza con quanto si era verificato circa mezzo secolo prima nel passaggio dal clima delle avanguardie ruggenti attorno agli anni ’10, dominate in Italia dal Futurismo, all’improvviso clima di calma assorta e di ribaltamento dei valori che si ebbe con la Metafisica e i fatti conseguenti. E già qui qualche tentazione di salvare ‟pochi ma buoni” si era manifestata nella critica, ma di recente è prevalso l’obbligo di rivalutare tante altre figure intermedie, i sette di Novecento, i romani e veneti del Realismo magico e altri ancora.
Venendo agli anni ’70 del Novecento, vi si ebbe appunto un fenomeno analogo, di reazione al clima nato attorno all’Arte povera, quando la ricerca si era spinta troppo avanti, lungo i sentieri della smaterializzazione e della ‟morte dell’arte”, provocando per contraccolpo un ritorno al colore e all’immagine. Ma appunto si vuol far credere che una tendenza del genere abbia avuto i soli rappresentanti negli artisti della Transavanguardia, i quali sono senza dubbio, singolarmente presi, ottimi talenti, con cui io stesso vanto rapporti eccellenti, soprattutto se si tratta di Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria. Però non posso certo dimenticare che altri li avevano preceduti, nell’impostare il fatale ‟ribaltone”, rispetto al clima sessantottesco: per esempio, il siciliano-torinese Salvo, l’emiliano Luigi Ontani, il romano Carlo Maria Mariani, nei quali oltretutto non sono da vedere solo dei casi isolati, bensì dei veri e propri capiscuola, di gruppi che proprio non hanno nulla da perdere in un confronto con i Transavanguardisti, e che anzi introducono utilissime varianti a definire il vivace orizzonte di quegli anni. Così, attorno a Mariani ci fu il gruppo degli Anacronisti, patrocinato soprattutto da Calvesi, e dietro la scia di Ontani e Salvo io stesso ho raccolto una formazione detta dei Nuovi-nuovi. Su queste colonne ho ricordato la valida personalità, prematuramente scomparsa, del pugliese Antonio Faggiano, o le abili avventure plastiche di Luigi Mainolfi. Ora è il momento di portare l’attenzione su Aldo Spoldi, nato a Crema nel 1950, che senza dubbio ha patito nei tempi scorsi di un qualche appannamento, ma ora risorge in un’ampia mostra alla Fondazione Marconi di Milano.
Spoldi attesta al meglio le virtù che furono dei Nuovi-nuovi. Se i Transavanguardisti portarono, al clima di quegli anni, un estro violento, una bella furia cromatica e neoespressionista, se invece gli Anacronisti si specializzarono nel simulare omaggi resi a capolavori inesistenti sorpresi nelle sale di un museo immaginario, il gruppo cui Spoldi appartiene si è distinto nel non volersi racchiudere nella dimensione del ‟quadro” ma nell’insistere su installazioni ad ampio raggio, e nel rifarsi a un universo di immagini ricavate dalla dimensione infanzia, cartoons, fumetti, comunque icone delicate, stilizzate. In occasione di questa sua ripresa l’artista lombardo ha voluto procedere ‟alla grande”, investendo l’intero spazio fornitogli dalla Fondazione, distribuito su quattro livelli, tre piani più un sotterraneo, ovvero, come suona il titolo di questo ben lubrificato ingranaggio, La tromba delle scale, considerata alla stregua di un gigantesco teatrino per marionette. Lui, il burattinaio, agita i fili dall’alto, facendo in modo che le varie sagome oscillino tra un piano e l’altro, aderendo per un momento alle pareti, ma pronte a rimettersi in moto, e a cercare nuove combinazioni, in una sorta di caleidoscopio che però agita e permuta tra loro non colori, bensì icone. I termini di riferimento possono essere le colonne tortili della cultura romana, fasciate da ‟storie” che si inerpicano, si srotolano sicure, deliziosamente varie e animate. Il racconto di Spoldi, proprio come nel loro caso, si svolge tutto in verticale, ma ci sono pure i momenti di pausa e di distensione, corrispondenti ai pianerottoli che si distaccano dalla tromba delle scale e si inoltrano nella profondità dell’edificio. Di questi spazi l’artista ha deciso di fare altrettanti laboratori, come se il burattinaio non ci invitasse solo allo spettacolo ma ci permettesse di entrare in un laboratorio dove, su lunghi balconi, egli procede a disegnare le sue magiche figurine, a stenderne bozzetti, e soprattutto a ‟provarne” i vari accostamenti, come potrebbe fare un sarto che assembla le parti di un abito, prima di confezionarlo e andarlo ad applicare al corpo del cliente.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …