Stefano Rodotà: La politica nell’età della tecnica

04 Ottobre 2006
Che cosa accade quando la politica incontra fini non negoziabili, si inoltra sul terreno dell’eticamente sensibile, affronta materie che si vorrebbero indecidibili, deve fare i conti con innovazioni scientifiche e tecnologiche che ci portano verso i territori del post-umano? Si tratta di sfide anche inedite, di questioni alle quali non si può dare risposte fermandosi alle contingenze, che non interrogano soltanto singoli partiti o gruppi, ma riguardano appunto la politica in quanto tale, nel suo modo d’essere, nel suo rapporto con la società.
Qui è il nucleo del tema dei valori, non soltanto in Italia, anche se proprio in Italia esso assume caratteristiche culturali e politiche assai particolari, che danno vita ad una anomalia che dev’essere rimossa. Si tratta, allora, di sfuggire ai rischi ed alle tentazioni di una precettistica. Bisogna precisare i termini della discussione e, per ciascuna questione, individuare strumenti analitici propri della discussione politica, tali da permettere distinzioni, e non solo contrapposizioni. (...) Partendo da questa premessa, è possibile superare una contrapposizione tra religiosità e laicità che le configuri in termini conflittuali, e guardare quindi in termini di composizione. Per questo mi è sembrato importante il confronto che ha consentito al Senato di arrivare ad un documento significativo in materia di cellule staminali. E ancor più significativa mi sembra l’indicazione che viene dal dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e il neosenatore Ignazio Marino, che purtroppo non ha ricevuto l'attenzione che merita.(...)
La politica è selezione degli obiettivi. E questo vuol dire che non tutto deve essere tradotto in regole vincolanti, che la politica non può identificarsi solo con norme di divieto, che la stessa regolazione sociale conosce tecniche diverse. Un esempio può aiutare a chiarire questi intrecci complessi, a mostrare come vi siano situazioni nelle quali bisogna andare oltre lo schema oppositivo tra un sì e un no, entrambi incondizionati.
Una esperienza fatta come relatore di un parere sulla diagnosi prenatale del Gruppo europeo per l'etica delle scienze e delle nuove tecnologie mi ha consentito di valutare più da vicino la realtà di questo tipo di problemi. Come si deve guardare ad una situazione in cui una coppia riceve la notizia che il feto presenta caratteri tali per cui nascerà una persona con un pesante handicap? La risposta ad un interrogativo così drammatico non può venire da una pura norma di divieto, né da una invocazione astratta della cultura dell'accettazione. Se la coppia, che dovrà prendere la decisione, si trova nella condizione per cui solo il lavoro di entrambi i suoi componenti consente una esistenza dignitosa, la scelta sarà fortemente influenzata dal contesto sociale. In una situazione in cui i servizi sociali, l'organizzazione scolastica, le prospettive di lavoro tengono seriamente conto delle esigenze dei nati con handicap e delle loro famiglie, aumenta molto la propensione alla scelta di portare a termine la gravidanza. Accade il contrario quando quelle condizioni non esistono, sì che la nascita di una persona con handicap obbligherebbe uno dei due genitori ad abbandonare il lavoro, per assicurarle cure adeguate. Questo, infatti, significherebbe impossibilità di sopravvivenza della coppia, a maggior ragione quando si aggiungesse una persona che porta con sé oneri aggiuntivi. L'aborto si presenta così come la via d'uscita da una situazione difficile.
È evidente, allora, che la tutela della vita non può essere affidata a una cultura dell'accettazione dell'handicap che lascia sole le persone alle prese con una scelta drammatica. È legata alla disponibilità sociale, dunque ad una politica che faccia le sue scelte, legislative e di distribuzione delle risorse, non in maniera ideologica, ma ispirandosi a principi di solidarietà e ad una considerazione della condizione reale delle persone. (...)
Lungo questa via difficile, che ci fa incontrare questioni complesse, dobbiamo sempre tener presente la Costituzione. Rilegittimata dal voto popolare di giugno, essa si presenta in primo luogo proprio come una carta dei valori e come un testo di grande apertura verso il futuro, tale da rendere possibili le integrazioni e le ibridazioni legate alle dinamiche ed alle innovazioni dei tempi nuovi. Una integrazione, ad esempio, è quella indicata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che nel suo articolo 3 prevede esplicitamente che, nell'ambito della medicina e della biologia, deve essere rispettato «il consenso libero e informato della persona interessata».
Il valore di questa previsione, che corrisponde ad una generale evoluzione dei sistemi giuridici, sta nel fatto che, con il riferimento alla indispensabilità del consenso, è nato un nuovo ‟soggetto morale”. L'espressione può apparire enfatica, ma coglie bene il passaggio da una situazione nella quale la persona era oggetto del potere del terapeuta - unico depositario del potere di decidere il se, il come e il quando curarsi - ad una nella quale è l'interessato e lui soltanto a governare la propria vita. Questo implica anche la possibilità estrema di rifiutare le cure, che può avere il suo fondamento nelle stesse convinzioni religiose, come accade per i Testimoni di Geova ai quali la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò può determinare la morte. E lo scorso anno le cronache italiane ci hanno informato di due casi in cui le persone hanno rifiutato l'amputazione di un arto, ritenendo di non poter vivere in una condizione di menomazione, e poco tempo dopo sono morte.
Ovviamente, pure la constatazione del mutamento delle regole, e dunque dello stesso statuto morale della persona e della sua libertà, non vuol dire che a questo punto ci si muova in uno spazio vuoto di principi, in cui il relativismo cancella ogni possibile riferimento a valori forti e nessun limite possa essere previsto per l'autonomia individuale. È una sciocchezza il dire che alla cultura laica non appartengano valori forti. (...)
Dietro tutto questo troviamo una lunga storia - il Rinascimento con la quattrocentesca Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, e poi l'Illuminismo, e altro nella vicenda della modernità - lungo la quale gli incontri e gli incroci con la religiosità, con il fattore religioso sono molteplici, ed oggi non corrisponde alla realtà l'affermazione che il pensiero laico, in quanto tale, vuole confinare la religione nella sola sfera privata. (...) Bisogna però intendersi sul significato della presenza della religione nella sfera pubblica. Una volta trasferita in questa dimensione, la religione, le convinzioni religiose devono convivere in modo paritario con altre credenze e opinioni. Non devono ovviamente omologarsi, ma neppure chiedere agli altri una omologazione, che in definitiva dovrebbe portare ad una identificazione, ad una riduzione dei valori di riferimento soltanto a quelli religiosi.
In sostanza, una cosa è attribuire rilevanza alla religione nella sfera pubblica, altro è la pretesa di riconoscere ad essa una sorta di monopolio dei valori, riprendendo anche atteggiamenti del passato che portavano ad avvicinare assai, fino a sovrapporle, religione e morale, vedendo poi nella Chiesa il luogo dove si trovavano i veri "esperti della natura umana". Proprio la convivenza nella sfera pubblica della religione e di diversi modi d'intendere natura, vita, morale impone consapevolezza delle diverse strategie concettuali che caratterizzano la riflessione religiosa e quella laica. (...) Solo partendo dal riconoscimento di questa diversità, e della pari dignità di queste strategie, è possibile il dialogo e quindi la paziente costruzione di punti di riferimento, di valori comuni. Solo così è possibile muovere verso forme di composizione nella discussione politica e nell'azione parlamentare.
Leopoldo Elia ha indicato una possibile strategia dialogica, che muova da una ricognizione dei principi supremi rinvenibili nel nostro ordinamento. Il riferimento diventa così quello rappresentato dalla Costituzione, in primo luogo, dalle convenzioni e dai trattati firmati e ratificati dal nostro paese, da altre impegnative dichiarazioni internazionali. (...)
Proprio seguendo la trama delle scelte di principio, è possibile affrontare concretamente anche questioni che oggi si presentano in forme assai conflittuali. Faccio due esempi, riferiti ai temi del testamento biologico e dei pacs.
Con la legge 28 marzo 2001, n. 145, il Parlamento ha ratificato la Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina. L'articolo 9 di questa Convenzione stabilisce che "per quanto riguarda un intervento medico riguardante un paziente che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere il proprio volere, devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi" (sottolineo il "devono" perché si tratta di espressione ovviamente impegnativa dal punto di vista giuridico). Questo vuol dire che si potranno disciplinare alcuni dettagli relativi alle modalità di manifestazione della volontà del paziente. Ma la scelta di principio è stata fatta, attraverso la legge di ratifica il testamento biologico è entrato nel nostro ordinamento, e questa scelta non può essere revocata in dubbio senza violare un impegno internazionale dell'Italia.
A conclusioni analoghe, anche se meno stringenti dal punto di vista formale, si giunge a proposito dei pacs, partendo dall'articolo 9 della Carta europea dei diritti fondamentali, votata dal Parlamento italiano a grandissima maggioranza. In questo articolo si afferma che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». Anche qui è stata fatta una impegnativa scelta di principio, che si coglie meglio se si fa un confronto con quanto stabilito dall’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950: «Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto». Il mutamento è radicale. La Carta dei diritti cancella la condizione della diversità di sesso e considera come due diritti separati quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia, così ponendo sullo stesso piano il matrimonio tradizionale e le altre forme di unione personale. La legge nazionale rimane libera nel definire le modalità di queste ultime, ma non può più escluderle in via generale. (...)
Il modo in cui la Costituzione si riferisce alla persona ed alla sua esistenza ci parla di un individuo non isolato, inserito nella dimensione sociale, protagonista di una attività economica che mai può esercitarsi "in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". La persona è così proiettata al di là della dimensione puramente biologica, ne vengono messe in evidenza libertà ed autonomia, non può essere considerata solo come un oggetto da proteggere.
Proprio perché così ricca è la considerazione della persona e indispensabile il rispetto della pienezza della sua vita, nessuna forma di riduzionismo è accettabile, né quello biologico, né quello di mercato. Questo principio è chiaramente affermato nell'articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali con la formula, comune ormai a diversi documenti, che prevede «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». La persona è irriducibile alla logica di mercato. (...)
Una assiologia come quella della Carta dei diritti fondamentali ci dice appunto che il sistema dei principi non consente l'accettazione di questa logica. Ci indica altri valori e mantiene così al centro dell’attenzione altri temi, come quello della incommerciabilità e, questione nuova ma ormai ineludibile, dei beni comuni. Risorse scarse da tutelate, ma pure risorse nuove ed abbondanti che non possono essere "recintate" e ricondotte alla pura logica privatistica. E' il caso, ad esempio, dell'accesso alla conoscenza, che va garantito nella maniera più larga. Qui le grandi opportunità offerte dalla tecnologia, dalla creazione di quell'immenso spazio pubblico che è Internet, rappresentano una risorsa grande per la crescita della persona, e in relazione a ciò devono trovare la loro misura.
L'incontro con la tecnologia, tuttavia, assume particolare evidenza proprio quando è la vita ad essere in questione. Il caso della ‟lotteria genetica” è, a suo modo, esemplare. Porta con sé implicazioni assai complesse, che chiamano in causa il modo d'intendere la natura umana e la sua modificabilità. E, di fronte alla condanna delle biotecnologie perché profanerebbero l'opera di Dio, alcuni sono indotti a chiedersi se così non si pronunci ‟una devota bestemmia”, attribuendo ad operazioni di laboratorio il potere di cambiare la natura umana e addirittura di contrastare l'opera divina (così Rusconi). Rimanendo sul terreno fattuale, ed affrontando così il tema della intangibilità della natura umana, ci troviamo di fronte all'intera questione della medicina che, dal lenire il dolore al curare le malattie, mette in evidenza processi culturali che certamente alterano il corso naturale delle cose, i ritmi spontanei del vivere e del morire, sostituendo ad essi l'artificialità della scienza e della tecnica.
Si può osservare che oggi siamo in presenza di situazioni più radicali, irriducibili alla logica appena ricordata. È il caso, ad esempio, della possibilità di impedire la trasmissione di malattie genetiche. Quando ciò è possibile senza violare altri principi, attraverso interventi di terapia genetica, ci si può opporre in nome di un diritto a ricevere un patrimonio geneticamente non modificato, dunque al rispetto della linea genetica naturale? Si può davvero pensare che si faccia l'interesse dell’‟altra” che dovrà nascere, se la madre, quando divenga possibile, si veda preclusa la possibilità di ricorrere ad interventi tendenti ad evitare il rischio della trasmissione del cancro al seno, alterando così il patrimonio genetico da trasmettere? Vi sono poi i casi di selezione degli embrioni per evitare, ad esempio, il rischio della nascita di una persona affetta dalla distrofia muscolare di Duchenne. È quel che è accaduto, poche settimane fa, in Spagna e in Gran Bretagna. Ed è bene ricordare che la legge severissima legge tedesca sulla protezione degli embrioni ammette la selezione del sesso proprio al fine di evitare la trasmissione di quella malattia. La lotteria genetica è abbandonata, non può essere considerata un principio di riferimento, prevale l'interesse alla tutela della salute di chi dovrà nascere. (...) Siamo sempre di fronte a situazioni complesse, affrontando le quali si esigono non solo rispetto delle opinioni altrui, ma soprattutto analisi delle situazioni concrete, distinzioni all'interno delle realtà che si vogliono regolare. È quel che non ha fatto l'articolo 1 della legge n. 40 che, perseguendo la piena parificazione tra embrione è persona, ha prodotto una sgrammaticatura legislativa che rende quell'articolo difficile da spiegare e da applicare, per il peso ideologico che lo contraddistingue. Proprio questa sua caratteristica ha finito con il bloccare, spero in maniera non definitiva, la necessaria riflessione sullo statuto giuridico dell'embrione. Congelata la discussione intorno al si o no, alla falsa alternativa tra il considerare l’embrione come persona o puro ammasso di cellule (che non rappresenta affatto la posizione laica), si è perduta la capacità di distinguere, trascurando ad esempio le posizioni assai differenziate del mondo scientifico. E, soprattutto, trascurando quell’evidente dato di realtà rappresentato dal fatto che, quando si parla di embrione, ci si riferisce a situazioni diverse: l'embrione già impiantato, quello in provetta, quello congelato. La tutela giuridica deve tener conto di tutto questo, e indicare soluzioni differenziate. (...)

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …