Irene Bignardi: Addio a Gillo Pontecorvo, maestro della Battaglia di Algeri
16 Ottobre 2006
Oltre che nelle storie del cinema, oltre che nel ricordo allegro degli amici che hanno condiviso con lui un pezzo della sua straordinaria vita, oltre che nella memoria della sua famiglia, Gillo Pontecorvo dovrebbe restare anche nel Guinness dei primati. Perché credo non ci sia un altro autore di cinema che sia riuscito a girare così pochi film nell’arco di una così lunga e bella vita, cinque e mezzo in tutto, per rubare la modalità di calcolo a Fellini. E che sarebbe comunque rimasto nella storia del cinema e nella memoria collettiva per un film che torreggia su tutti gli altri, che tutti ricordano, che ha parlato a tutto il mondo: La battaglia di Algeri (Leone d’oro a Venezia nel 1966) e che, ogni volta che lo si vede, sorprende per la potenza, l’onestà, la profondità, l’intelligenza politica, la capacità di emozionare - qualcosa che solo il grandissimo cinema sa dare. Gillo Pontecorvo è morto ieri a Roma, a 87 anni. Aveva avuto un infarto alcuni mesi fa. Ma ricordare Gillo (devo dirlo: il "mio" amico Gillo, con cui ho lavorato, chiacchierato, litigato, e passato molte ore a ‟estorcergli”, così lui diceva, le sue memorie di vero o finto smemorato per la sua biografia che andavo scrivendo), ricordare Gillo vuol dire parlare non solo del regista ma di una persona e di una avventura umana uniche e speciali, di una vita divisa in tante tranche avvincenti e avventurose. Da quando, figlio pigro e, per sua ammissione, un po’sconclusionato di una famiglia della grande borghesia ebraica pisana, nello scenario di fratelli sapienti, brillanti e politicamente connotati (citiamo per tutti il nome di Bruno, il grande fisico che abbandonerà l’Occidente per andare a lavorare in Urss), si era ritagliato il ruolo di campione di tennis. Ci avrebbero pensato le leggi razziali a spedirlo a Parigi, dove si sarebbe compiuta, ma sempre alla maniera di Gillo, allegramente, la sua educazione politica alla scuola di Amendola e di Negarville. E saranno gli amici del Pci in esilio a coinvolgerlo nella lotta clandestina di Liberazione, mentre Gillo, fuggito da Parigi all’arrivo dei nazisti, viveva di pesca subacquea e di lezioni di tennis a Saint Tropez. Una lotta che il nostro, poco più che ventenne (era nato il 19 novembre del 1919 a Pisa), intraprese con il consueto mix di voglia di gioco, di coscienza civile e di incoscienza personale, operando prima come collegamento tra la Francia e l’Italia, poi nella Milano occupata dai tedeschi e infine come capo di una brigata partigiana. Sarebbe già un film. A cui si unisce quello del suo lavoro nel Pci negli anni successivi alla guerra, al lavoro come fotografo e giornalista per l’Avas, l’agenzia di stampa francese, infine all’innamoramento per il cinema, ai primi documentari, al lavoro come assistente di Mario Monicelli sul set di "Totò e Carolina", alla vita in una celebre comune di scapolacci. Ma ci sarebbe voluto un incontro fatale - quello con Franco Solinas, avvenuto molto pontecorvianamente in un night club - per far decollare l’avventura cinematografica di Gillo Pontecorvo. Il primo film di Gillo regista e Franco Solinas sceneggiarore è il mezzo dei cinque e mezzo cui accennavamo sopra: "Giovanna", 1956, 45 minuti in un film collettivo firmato anche da Joris Ivens e da Cavalcanti, una storia operaia girata in una fabbrica dismessa (e un film che difficilmente si riesce a trovare). Poi è stata la volta di "La lunga strada azzurra", da un romanzo dello stesso Franco Solinas ("Squarciò"), di cui Gillo diceva sempre di non essere mai stato soddisfatto, costretto come era stato a scegliere, per una storia di pescatori sardi, un divo come Yves Montand e una gran dama del cinema, e improbabile moglie di proletario, come Alida Valli. Sempre tormentato nella stesura delle sceneggiature con il dioscuro Solinas, con cui erano amorosi litigi e continue rappacificazioni, Pontecorvo nel 1960 realizzò in Jugoslavia un interessante, emozionante e discusso film sull’olocausto, "Kapò", con Susan Strasberg e Laurent Terzieff: un film che scatenò più tardi una insensata polemica innescata maramaldescamente da Jacques Rivette - che accusava un certo "carrello" che seguiva la mano di Emmanuelle Riva aggrappata alla rete del campo di essere "amorale" - e ripresa successivamente da Serge Daney e da alcuni imitatori nostrani: una polemica che, a dire il vero, turbava e indignava di più i suoi amici (me compresa) che Pontecorvo, portato a ridere di attacchi e polemiche ridicolmente ideologiche. Nel 1965, infine, dopo una gestazione lunga e complicata che vide scendere in campo, accanto a Pontecorvo e a Solinas, anche i veri protagonisti della vicenda, trasformati in interpreti o in coproduttori, ebbe inizio la lavorazione di "La battaglia di Algeri", un film genialmente impostato su quella che era stata, apparentemente, una sconfitta del Fronte di Liberazione Algerino e che sarebbe rimasta invece come un momento di presa di identità collettiva dell’Algeria contro il colonizzatore francese. Uno straordinario film da outsider, siglato dai ritmi algerini e dalle musiche bellissime di Ennio Morricone e dello stesso Gillo, che vinse il Leone d’oro a Venezia, conquistò tre nomination agli Oscar, e divenne leggendario: tanto che, anni dopo, l’Fbi sosteneva che le Black Panther studiavano le loro tecniche di guerriglia urbana analizzando il film di Pontecorvo. E anche il Pentagono lo prese come esempio prima dell’invasione dell’Iraq. Tre anni dopo, questa volta scritto con Solinas e con Giorgio Arlorio, fu la volta di un bel film che non ebbe il successo dovuto, e che la produzione americana (la Warner) smontò e mal distribuì: "Queimada" (un titolo voltato in portoghese dall’originale spagnolo dopo che gli spagnoli, offesi dall’immagine del colonialismo che il film stigmatizzava, minacciarono di boicottarne la distribuzione in tutti i paesi di lingua castigliana), in cui Marlon Brando, meravigliosamente bravo e avventurosamente a confronto con un indigeno, Evaristo Marquez, che Pontecorvo aveva scovato in un villaggio e trasformato in un attore, era un avventuriero al soldo degli inglesi che agitava le già agitate acque di un piccolo paese dei Caraibi per sostituire al vecchio dominio coloniale il ‟moderno” dominio britannico. Nel 1979, infine, quello che sarebbe rimasto l’ultimo film di Gillo, "Ogro", sull’attentato che in Spagna uccise Carrero Blanco: un film appassionante e teso, ma molto tormentato in fase di sceneggiatura, e che non soddisfece mai del tutto il suo regista. Poi, tanto lavoro politico - che Pontecorvo ha sempre continuato a fare dai tempi della sua militanza con Berlinguer dopo la guerra, senza interromperlo neanche quando nel 1956 uscì, in silenzio, dal Pci, a cui rimase vicino tutta la vita. Un po’di pubblicità. La direzione della Mostra del cinema di Venezia, dal 1992 al 1996, che sveltì e rese più giovane e popolare. La presidenza di Cinecittà. Ma niente più cinema. Perché? A chi glielo chiedeva Pontecorvo rispondeva con uno dei suoi sorrisi che gli illuminavano gli occhi chiari che per fare cinema lui doveva innamorarsi: del progetto, naturalmente. Qualche volta aveva creduto di innamorarsi (per un progetto su Cristo, per un film sull’arcivescovo Romero), ma le cose non erano andate in porto. E lui, Gillo, serenamente pigro, innamorato della vita, dei suoi piccoli rituali, dei suoi tre figli, di sua moglie Picci, dei fiori che coltivava con rimarchevole pollice verde e con un paio di cesoie sempre in tasca destinate soprattutto a rubare bulbi e talee in casa altrui, non aveva voglia di combattere, con la sua amabilità da folletto e la sua cocciutaggine da passionario, per qualcosa che non fosse un grande progetto emozionante. Era capace di vivere con poco. La sua colorata casa di Roma, gestita con gentilezza poetica da Picci, è sempre stata un approdo di amicizie e sentimenti, lontana da qualsiasi mondanità romana. E la sua storia è la storia di un uomo che ha saputo vivere la vita fino in fondo, testardamente godereccio con poco, cercando sempre di pensare in grande.
Irene Bignardi
Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …