Marina Forti: Negli oceani aumentano le zone morte
30 Ottobre 2006
‟Zona morta”, in un oceano, è una zona in cui manca ossigeno nell'acqua - e senza ossigeno non sopravvivono i pesci, mammiferi, molluschi, le piante acquatiche: la vita marina scompare. L'ossigeno manca per effetto dell'inquinamento: nel Golfo del Messico, ad esempio, la principale causa sono i residui di fertilizzanti e scarichi urbani portati dal Mississippi, ‟collettore” di tutto il Midwest degli Stati uniti. Fertilizzanti e altro alimentano alghe e microalghe, che proliferano all'eccesso, muoiono e si decompongono, e in questo processo consumano l'ossigeno disciolto in acqua: in altre parole, ‟soffocano” il mare.
La ‟zona morta” del Golfo del Messico è tra le più ampie. Altre ‟zone morte” note da tempo sono quella di Cheasapeake Bay, al centro della costa atlantica degli Stati uniti (è un bacino su cui gravano sei stati), quella del mar Baltico (anche qui affacciano diversi stati), il Kattegat (zona di mare tra Svezia, Norvegia e Danimarca), il Mar Nero e il mare Adriatico settentrionale. Tutte si devono all'acumulo di residui dell'agricoltura intensiva (fertilizzanti), dell'allevamento intensivo (nell'Adriatico ad esempio sono gli scarichi di migliaia di allevamenti nella pianura padana, dalle mucche ai suini), delle fognature urbane, o l'inquinamento provocato dai combustibili fossili. Le ‟zone morte” hanno dimensioni variabili secondo la stagione, si estendono nella stagione calda e si riducono a volte d'inverno, ma sono sempre là.
Le notizie diffuse dall'Unep sono preoccupanti perché confermano che le ‟zone morte” non sono più appannaggio delle regioni più ricche del pianeta. Il rapporto completo sarà pubblicato all'inizio del nuovo anno, ma qualche notizia preliminare è stata diffusa dall'Unep giovedì, durante una conferenza internazionale sull'inquinamento marino a Pechino, in Cina, a cui partecipavano delegati da un centinaio di paesi. Tra le nuove ‟zone morte” citate si segnalano quella del mar Arcipelago in Finlandia (in effetti è un'estensione settentrionale del mar Baltico), la Laguna di Fosu in Ghana, l'estuario di Mersey in Gran Bretagna, la baia di Montevideo in Uruguay. E altre ancora lungo le coste del sud America, della Cina, Giappone, Australia sud-orientale e Nuova Zelanda.
Gli effetti di questa lenta morte degli oceani sono disastrosi sotto tutti i punti di vista: ecologico, economico, della salute delle popolazioni. L'estendersi di queste zone senza vita marina significa difficoltà per la pesca e dunque per le popolazioni costiere che vivono pescando, in primo luogo, e anche per il turismo. A parte il danno economico (che non è lieve), la cosa che più allarma - stando al rapporto degli esperti dell'Unep - è che l'inquinamento all'origine delle ‟zone morte” non dà segno di diminuire. Anzi: si prevede che gli scarichi azotati portati dai fiumi nei mari, per fare un esempio, aumenteranno globalmente del 14% da qui al 2030 rispetto ai livelli di metà anni '90. Il moltiplicarsi delle ‟zone morte” dunque è il segno che il pianeta non riesce più ad assorbire gli effetti delle attività umane, agricoltura e allevamento industriali o altro.
Eppure, invertire la tendenza sarebbe possibile - anzi, sarebbe urgente. E' indicativo quanto segnala un altro studio diffuso dall'Unep la scorsa settimana. Si tratta delle barriere coralline, ecosistemi assai sensibili che tendono a ‟sbiancare” e morire con l'inquinamento e con l'aumento della temperatura del mare: tanto che le barriere coralline sono un indicatore precoce dello stato generale dell'ambiente e del riscaldamento del clima. I coralli infatti ‟sbiancano” quando l'acqua troppo calda sloggia le microalghe che vivono in simbiosi con il micro-organismo del corallo stesso, fornendogli elementi nutrienti e dandogli i colori che rendono così spettacolare una barriera corallina. L'Unep segnala che dove l'ecosistema marino è più sano, le barriere coralline tendono a recuperare, cosa ampiamente osservata negli ultimi anni. Ovvero, il corallo riesce a sopravvivere anche al riscaldamento dell'acqua, se il livello dell'inquinamento è basso. Le previsioni però dicono che entro il 2030 il 90% delle coste tropicali sarà ‟sviluppato” - ovvero, sarà stato colonizzato da insediamenti umani, città e attività industriali o agricole o turistiche, con il conseguente inquinamento. E questo rende più urgente prendere misure per diminuire l'impatto umano sui mari.
La ‟zona morta” del Golfo del Messico è tra le più ampie. Altre ‟zone morte” note da tempo sono quella di Cheasapeake Bay, al centro della costa atlantica degli Stati uniti (è un bacino su cui gravano sei stati), quella del mar Baltico (anche qui affacciano diversi stati), il Kattegat (zona di mare tra Svezia, Norvegia e Danimarca), il Mar Nero e il mare Adriatico settentrionale. Tutte si devono all'acumulo di residui dell'agricoltura intensiva (fertilizzanti), dell'allevamento intensivo (nell'Adriatico ad esempio sono gli scarichi di migliaia di allevamenti nella pianura padana, dalle mucche ai suini), delle fognature urbane, o l'inquinamento provocato dai combustibili fossili. Le ‟zone morte” hanno dimensioni variabili secondo la stagione, si estendono nella stagione calda e si riducono a volte d'inverno, ma sono sempre là.
Le notizie diffuse dall'Unep sono preoccupanti perché confermano che le ‟zone morte” non sono più appannaggio delle regioni più ricche del pianeta. Il rapporto completo sarà pubblicato all'inizio del nuovo anno, ma qualche notizia preliminare è stata diffusa dall'Unep giovedì, durante una conferenza internazionale sull'inquinamento marino a Pechino, in Cina, a cui partecipavano delegati da un centinaio di paesi. Tra le nuove ‟zone morte” citate si segnalano quella del mar Arcipelago in Finlandia (in effetti è un'estensione settentrionale del mar Baltico), la Laguna di Fosu in Ghana, l'estuario di Mersey in Gran Bretagna, la baia di Montevideo in Uruguay. E altre ancora lungo le coste del sud America, della Cina, Giappone, Australia sud-orientale e Nuova Zelanda.
Gli effetti di questa lenta morte degli oceani sono disastrosi sotto tutti i punti di vista: ecologico, economico, della salute delle popolazioni. L'estendersi di queste zone senza vita marina significa difficoltà per la pesca e dunque per le popolazioni costiere che vivono pescando, in primo luogo, e anche per il turismo. A parte il danno economico (che non è lieve), la cosa che più allarma - stando al rapporto degli esperti dell'Unep - è che l'inquinamento all'origine delle ‟zone morte” non dà segno di diminuire. Anzi: si prevede che gli scarichi azotati portati dai fiumi nei mari, per fare un esempio, aumenteranno globalmente del 14% da qui al 2030 rispetto ai livelli di metà anni '90. Il moltiplicarsi delle ‟zone morte” dunque è il segno che il pianeta non riesce più ad assorbire gli effetti delle attività umane, agricoltura e allevamento industriali o altro.
Eppure, invertire la tendenza sarebbe possibile - anzi, sarebbe urgente. E' indicativo quanto segnala un altro studio diffuso dall'Unep la scorsa settimana. Si tratta delle barriere coralline, ecosistemi assai sensibili che tendono a ‟sbiancare” e morire con l'inquinamento e con l'aumento della temperatura del mare: tanto che le barriere coralline sono un indicatore precoce dello stato generale dell'ambiente e del riscaldamento del clima. I coralli infatti ‟sbiancano” quando l'acqua troppo calda sloggia le microalghe che vivono in simbiosi con il micro-organismo del corallo stesso, fornendogli elementi nutrienti e dandogli i colori che rendono così spettacolare una barriera corallina. L'Unep segnala che dove l'ecosistema marino è più sano, le barriere coralline tendono a recuperare, cosa ampiamente osservata negli ultimi anni. Ovvero, il corallo riesce a sopravvivere anche al riscaldamento dell'acqua, se il livello dell'inquinamento è basso. Le previsioni però dicono che entro il 2030 il 90% delle coste tropicali sarà ‟sviluppato” - ovvero, sarà stato colonizzato da insediamenti umani, città e attività industriali o agricole o turistiche, con il conseguente inquinamento. E questo rende più urgente prendere misure per diminuire l'impatto umano sui mari.
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …