Irene Bignardi: Innocente e perversa, Lulù compie cento anni

21 Novembre 2006
Lulù compie cent’anni tra due giorni, il 14 novembre. Ed è difficile crederlo, tanto è forte e suggestiva e carismatica e copiatissima la sua immagine, e tanti sono i suoi cloni che girano per le strade. Frangia tagliata di netto appena sopra le sopracciglia e caschetto nero? è lei, Louise Brooks, Lulù, non ce ne sono altre in un mondo dell’immaginario cinematografico popolato di bionde, di rosse o di ricciolone. Anche se mi pare fosse Anita Loos a sostenere che Louise Brooks era bruna sì, ma bionda nell’animo. Potere degli stereotipi. A celebrarla hanno pensato le preziose Giornate del cinema muto di Pordenone con un suo film raro (Prix de beauté, regia di Augusto Genina, sceneggiatura di René Clair e di G. W. Pabst, fotografia di Rudolph Maté, proposto nella versione muta) e con la proiezione di un documentario a lei dedicato. E tornerà a celebrarla la Cineteca di Catalogna a Barcellona proprio nel giorno del suo compleanno, avviando un omaggio che si protrarrà per tre settimane. Ma la celebra soprattutto la nostra memoria. C’è una famosa foto firmata da E. R. Richee, del 1928, che mostra Louise Brooks in tutta la semplicità stilizzata della sua bellezza, la frangia nera e il caschetto di capelli e il vestito dalla scollatura quadrata che si confondono con lo sfondo scuro, e fanno emergere solo il volto bianco, di profilo, e una collana di perle che la rendono umana: se no sembrerebbe un bellissimo ectoplasma che emerge dal nulla. Quanto l’ha pensato lei, il taglio di questa foto, e quanto il fotografo? A giudicare da quello che di lei si racconta, Louise Brooks era tutto meno che una signora inconsapevole del suo fascino, del suo potere di attrazione e della sua intelligenza. Certo non quella che adesso si chiama una «bimbo». Determinata e colta. E tosta. Ricorda lo storico del cinema Kevin Bronlow - uno dei tanti che la frequentarono negli anni del suo ritiro, forse non casuale, nei pressi di una celeberrima cineteca americana - la prima visita che le fece nella sua casa di Rochester, nel Nord dello Stato di New York, quando Louise aveva sessant’anni. «Insultava allegramente tutti quanti, me compreso, con una voce che sembrava trasformare le parole in musica». Ma il mattino dopo, a sorpresa, la bella Louise Brooks era diventata, per Bronlow, «Louse» Brooks, l’antipatica. Colpa delle bottiglie che stavano sul tavolo della cucina, testimoni muti di un problema che hanno spesso le ex dive. Anche le leggende. E lei di leggende ne ha create. Ha detto di aver scritto una autobiografia - Naked on my Goat - ma anche di averla buttata in un inceneritore, salvo qualche frammento. Ha scritto una raccolta di storie - Lulu in Hollywood - molto elusiva e brillante, distaccata e critica, ambiziosa e dura come può scrivere solo chi sente di non appartenere, nel profondo, allo stesso mondo. è riuscita a far cambiare la sua descrizione, che trovava poco lusinghiera, in un libro della grande storica del cinema di quegli anni, Lotte Eisner, e la versione definitiva dice che era «un’attrice dotata di un’intelligenza senza pari, e non solo una stupefacente creatura». Era snob e colta, provocatoria e misteriosa. Aveva creato un mito con pochi film. Era riuscita a essere un ponte tra Europa e America ma, sempre originale, nella direzione opposta a quella di qualche anno dopo, la migrazione Vienna-Berlino-Hollywood che avrebbe portato in America Billy Wilder e Lubitsch, Pabst e Fritz Lang. Perché accadde nel 1929, annus horribilis, che la figlia dell’avvocato, l’incantevole ragazzina che aveva debuttato giovanissima come ballerina, che aveva ballato per Zigfeld e aveva fatto una serie di film in cui era sempre una capricciosa femme fatale, che si era brevemente sposata col regista Edward Sutherland, aveva lavorato con Hawks in Capitan Barbablù dove uno sciocco Victor McLaglen rinuncia a lei per non ferire un amico... accadde dunque che venne vista da Pabst, il grande tedesco, proprio in Capitan Barbablù, che Pabst le propose il ruolo di Lulù ne Il vaso di Pandora, che l’ambiziosa Louise litigò con la Paramout a cui era legata da contratto per dire di sì alla cultura europea e a un capolavoro in cui la ventitreenne attricetta americana si buttò con consapevolezza e tigna, dando al ruolo della bella e sensuale Lulù (che, dopo aver fatto molti danni in giro per l’Europa, va a morire la vigilia di Natale per mano di Jack lo Squartatore) uno spessore e una carica erotica ineguagliabili. Quasi assurdo il pensiero che per un attimo Marlene Dietrich, forte del suo Angelo azzurro, venne considerata per il personaggio di Lulù: niente di personale, ma la perversa innocenza (o l’innocente peccaminosità?) di Louise Brooks è unica e solo sua. Poi, sempre per Pabst, Louise Brooks creò un altro indimenticabile, o forse più indimenticabile, personaggio in Diario di una donna perduta. Una donna perduta che però sa ritrovare se stessa. Perché la sua Thymiane, dopo aver attraversato tutte le umiliazioni della violenza, della casa correzionale, del bordello di cui diventa l’attrazione, risale la scala sociale senza nascondere nulla del suo passato, senza ipocrisia, con una fortissima carica provocatoria nei confronti del perbenismo fasullo e crudele delle istituzioni. Che infatti (vedi la censura) si accanirono contro il film. Mentre Louise Brooks diventava in Europa il simbolo di un erotismo libero e spregiudicato, Hollywood, offesa, le chiudeva le porte. Al suo ritorno in America, dopo il passaggio sotto le luci di Genina in Prix de beauté nel 1931, per Louise non ci furono altro che particine malinconiche, piccoli film, qualche spettacolo di nuovo da ballerina. Poi il silenzio, il ritiro nella casa paterna di Wichita, quindi a Rochester, dove gli ammiratori (Kenneth Tynan, per esempio, che le dedicò un bel profilo sul New Yorker) andavano fedeli a trovarla. Nel 1961 la sua leggenda troverà una traduzione nel personaggio di Nanà, la prostituta di Vivre sa vie di Godard che truccò la bella Anna Karina come la fatale Lulù. Guido Crepax popolò i sogni dei sessantottini di una Lulù-Valentina. Lei gli fu grata, si scambiavano lettere garbate. Lei scriveva cose intelligenti, pungenti, amare, e beveva. Se ne è andata l’agosto 1985.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …