Irene Bignardi: Altman. L’ultimo ribelle di Hollywood

29 Novembre 2006
C’era (c’è) un’aria di morte nel suo ultimo meraviglioso film Radio America. C’era un’aria di morte, c’era un angelo bianco che passava a segnare i destini degli uomini e un vecchio uomo di spettacolo che se ne andava pacificamente. E auguriamo al gigante del cinema che ci ha lasciato di essersene andato con altrettanta serenità. Ma il vecchio signore grande, maestoso e imperioso, dalla barba bianca e dal cappellaccio a tesa larga che aveva da poco girato la boa degli ottanta anni (era nato a Kansas City, Missouri, il 20 febbraio del 1925) lascia un vuoto enorme in un cinema americano sempre più disumanizzato e tecnologico di cui i suoi film hanno rappresentato, negli ultimi anni, il versante sofisticatamente popolare, l’antidoto a misura d’uomo, una creazione continuamente giovane e reinventata molto più giovane che non i videogiochi di tanto cinema hollywoodiano - di quella Hollywood che ha atteso gli ottant’anni di Altman per dargli, dopo tante vane nomination - per M.A.S.H., per I protagonisti, per America oggi, per Gosford Park - il riconoscimento di un Oscar alla carriera. E non si può definire altro che cecità il fatto che a Nashville, uno dei più grandi film del ventesimo secolo, quello che ha inventato un modo inconfondibile di raccontare, quello che ha previsto con la chiarezza visionaria di un genio il futuro dell’America, sia andato solo il premio per una canzone, I’m easy, con cui l’allora bellissimo Keith Carradine rimbambolava tutte le donne di Nashville (sarà di consolazione il fatto che oggi quella canzone sia diventata patrimonio culturale nazionale, prescelta per essere conservata dall’United States National Film Registry?). L’anno scorso, come ultimo film dopo cinque anni alla direzione del Festival di Locarno, come segno del cinema che ho amato, ho proposto proprio Nashville, e ho visto una Piazza Grande incatenata per oltre tre ore alle sedie da un vecchio film senza effetti speciali che non ha paragoni per brillantezza e genialità con nessuno dei film di oggi. I non altmaniani (e per quanto sia incredibile ce ne sono) alla grandezza di Nashville e quindi del suo regista obiettano che il percorso di Altman è stato pieno di alti e bassi, di picchi e di abissi. Tutto vero. La carriera del grande Bob, quasi a voler smentire tutti i teorizzatori della teoria degli autori, non è stata liscia e coerente, ma è stata piena di modi e di tecniche diverse, d’incoerenze, di film irriconoscibili come altmaniani - almeno del suo ultimo ‟modello”. E come tutti gli sperimentatori Altman ha fatto film sublimi e film sbagliati. Ma è il suo percorso nel complesso, e le vette che lo delimitano, a fare della sua filmografia uno dei più importanti risultati del secolo del cinema. Robert Altman era figlio dell’alta borghesia cattolica, educato in ottime scuole, pilota di B-24 alla fine della guerra, aspirante attore, poi sceneggiatore, poi inventore (in un momento di crisi creativa) di un sistema di tatuaggio per l’identificazione dei cani, quindi regista di piccoli film industriali, abilissimo in ogni aspetto tecnico e velocissimo nell’esecuzione. Infine, a trent’anni, regista: e da The delinquents, del 1955, sulla delinquenza minorile, a Radio America, attraverso California poker (1974), Tre donne (1977), Kansas city (1996), Robert Altman ha vissuto inversioni di tendenza e cambiamenti di stile, ha realizzato capolavori e girato film talvolta irritanti. Tra il 1975, quando alla vigilia di una data epocale come il bicentenario degli Stati Uniti ha fatto con Nashville uno dei massimi capolavori sull’America, le sue ossessioni, i suoi sogni, la sua crudeltà, la sua voglia di uccidere i propri idoli, e il 1992, quasi vent’anni dopo, quando ha ritrovato la stessa forza con America oggi (Short Cuts), traducendo la sua personale rilettura di Carver in un arazzo duro e senza speranza sulla cultura californiana e gli Stati Uniti, Altman ha vissuto molte vite creative e qualche crisi. Se negli anni 70 aveva allineato film bellissimi, poetici e toccanti come I compari, il suo percorso in un duro e poco romantico vecchio West, e Il lungo addio, la più toccante e intima rilettura di Chandler mai fatta. Se ha fatto film poetici e surreali come Anche gli uccelli uccidono e sorprendenti film corali come Streamers. Se nel 1992, con I protagonisti, ha intrecciato humour e perfidia in un fortunato film sulla volgarità hollywoodiana - e qualcuno vi ha letto un’elegante provocazione del nostro a un mondo che negli anni precedente lo aveva condannato all’ostracismo - Altman ha anche ripetuto senza felicità la sua maniera in Quintet o Health, ha realizzato film pasticciati e faticosi come Popeye e Pret-à-porter, ha rischiato il disastro in Terapia di gruppo. Ma, di nuovo, la grandezza di Altman stava nella capacità di inventare e di reinventarsi. Come ha fatto creando un nuovo modello di cinema nella televisione - e che cinema - con gli undici episodi di Tanner ‘88: la finta cronaca, ma così vera, così realistica, di una campagna presidenziale raccontata con la sua tipica maniera a intreccio, con le sovrapposizioni, con quel suo audio confuso e sporco più reale del reale, accostando personaggi inventati a veri personaggi politici. E impartendo una lezione sul costume politico che graffia a vent’anni di distanza. Con Radio America - a cui un’altra giuria strabica, quella di Berlino, ha preferito un onesto film ‟impegnato” politicamente - la sua grinta si era sciolta in una dolcezza amarognola che annunciava un pacificazione. Il vecchio mondo se ne andava, travolto dalla volgarità impersonata da Tommy Lee Jones, l’imprenditore che avrebbe chiuso il meraviglioso ultimo spettacolo della Prairie Home Companion e che poteva passare sotto il busto di Francis Scott Fitzgerald ignorando chi fosse. Ma la morte, immaginata da Altman, sembra, in quel film, una cosa gentile. Speriamo che lo sia stata con lui.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …