Marina Forti: Afghanistan, un giorno qualunque

29 Novembre 2006
Bisogna superare Microrayan, gli edifici di appartamenti a schiera, stile case popolari, costruiti quando in Afghanistan c'erano i sovietici. Poi si gira verso est su una strada larga ma non asfaltata, tra officine di meccanici o metallari, negozietti e bancarelle di frutta, qualche edificio nuovo e sgraziato tra case basse dai mattoni di fango. Si arriva così nel distretto 9, uno dei tanti quartieri popolari che circondano Kabul: poche case hanno l'acqua corrente, a giudicare dalle pompe ai crocicchi (costruite da organizzazioni umanitarie, pare). Né esiste un sistema di fognature, perché ai lati delle strade ci sono canali di scolo. Non parliamo di elettricità: a Kabul la city power (la corrente elettrica pubblica) è una rarità anche nei quartieri medi attaccati alla rete, e qui pochi hanno un generatore a gasolio.
Ha un aspetto un po' rurale, il distretto 9; e anche la ‟scuola di pace”, o Peace Building, ricorda le case di villaggio: cinta da un muro, poche stanze ai lati di un cortile interno. È gestita dall'associazione Hawca (Assistenza umanitaria alle donne dell'Afghanistan), che ai tempi dei Taleban teneva scuole clandestine per le donne a Kabul ed era soprattutto attiva nell'esilio di Peshawar, in Pakistan. Oggi Hawca continua a lavorare ‟per incoraggiare l'empowerment e la partecipazione delle donne nella ricostruzione”, spiega Orzala Ashraf, una delle fondatrici (incontrata alla vigilia di una sua visita in Italia). Progetti di alfabetizzazione femminile in zone rurali, una ‟casa protetta” per donne che fuggono da situazioni di violenza, assistenza legale.
E la piccola scuola del distretto 9, frequentata da 200 bambini e bambine tra 6 e 10 anni in tre turni quotidiani. La scuola pubblica non dura più di due o tre ore al giorno: mancano sia le aule, sia gli insegnanti, e bambini frequentano a turni. Qui trovano una sorta di doposcuola, gratuito. Lo chiamano Peace Building perché qui le insegnanti parlano di pace e di violenza, della storia afghana, dei diritti dei bambini. Discutono le notizie sentite alla radio o ascoltate dai grandi. Quali notizie colpiscono questi bambini? ‟I rapimenti, gli scontri. Ne parlano molto”, risponde la direttrice, signora Fahima Jan. ‟Qui imparano anche a partecipare e discutere”. Una grande risorsa per le famiglie di questa zona impoverita: gente che tira avanti con difficoltà, venditori ambulanti, rari impieghi statali di basso livello (30 o 40 dollari mensili); famiglie venute dalle province nel corso degli anni, molti tornati dal Pakistan dopo il 2001 e rimasti nella capitale nella speranza di trovare opportunità di lavoro.

Più militari che sviluppo
‟C'erano molte aspettative in Afghanistan, ma non sono state realizzate”, dice Fawzia Koofi, una giovane signora dai modi sicuri. E' la vicepresidente del parlamento nazionale, Wolesi Jirga, dove le 68 deputate fanno il 27% dell'Assemblea. Lei è una delle 17 donne elette a competizione diretta; le altre sono frutto delle ‟quote rosa” (‟Le discriminazioni positive sono necessarie, in un paese così impregnato di cultura maschile”). Nel suo grande ufficio presso il parlamento, Fawzia Koofi fa notare che la vita materiale degli afghani non è cambiata. ‟Non è stato fatto abbastanza per le infrastrutture: sembra incredibile che siano stati spesi 12 miliardi di dollari e Kabul non abbia neppure l'elettricità, mentre nelle province l'accesso al servizio sanitario e ai servizi sociali resta un sogno. Il gap tra le aree urbane e quelle rurali è gigantesco: ci sono villaggi dove i bambini camminano 4 ore per raggiungere la scuola. Mancano investimenti sistematici nelle reti idriche. In parte, gli investimenti non sono stati incanalati in modo proprio. Ma soprattutto, gli investimenti sono andati più in campagne militari e politiche che nello sviluppo”.
Già, le campagne militari. Al comando di Isaf (la Forza internazionale di assistenza all'Afghanistan), i generali della Nato dicono che i ribelli hanno diminuito l'attività e parlano di ‟stabilizzazione”. Spesso però la notte si sentono aerei caccia sorvolare Kabul (‟missioni di ricognizione”, come dicono i portavoce militari?), mentre le operazioni militari proseguono nell'est e nel sud del paese, nelle province di frontiera con il Pakistan, condotte dalle forze Usa e del Regno unito al di fuori dal comando Nato-Isaf. Per capire che l'Afghanistan non è affatto in pace basta scorrere i titoli dell'agenzia di stampa afghana Pajhwok in una qualsiasi giornata: ‟I Taleban uccidono quattro lavoratori afghani nel Kunar” (provincia orientale, ndr). ‟Bush e Karzai hanno un colloquio telefonico”. ‟Lettere notturne ammoniscono contro l'istruzione delle donne” (distribuite nella provincia di Logar, ingiungono di ritirare le bambine sono attribuite ai Taleban o al Hizb-i-Islami, Partito dell'Islam di Gulbuddin Hekmatyar). ‟Quattro civili periscono in un bombardamento Nato, dicono gli abitanti” in un distretto di Kandahar (la Nato però dice di aver ucciso due ‟insorti”). ‟Tre sospetti Taleban detenuti a Khost”. ‟15 morti, 15 feriti in un'esplosione suicida nella provincia di Paktika” (in un ristorante affollato). ‟La Nato: 55 Taleban uccisi nel sud”. ‟Passaporti afghani falsi trovati a Peshawar” (Pakistan). ‟Combattente Taleban ucciso nel Zabul”. Il conflitto strisciante non impedisce un boom dell'edilizia: ‟Il Pakistan esporta un milione di tonnellate di cemento in Afghanistan”.
Questa era domenica, 26 dicembre: ma ogni giorno è un simile stillicidio. Giorni fa una radio locale mandava in onda il commento di un agricoltore della provincia di Kandahar: ‟Siamo presi tra due fuochi. Di giorno arrivano gli americani e vogliono arrestare i nostri giovani accusandoli di essere Taleban. Di notte arrivano i Taleban, se non li sfamiamo dicono che stiamo con gli americani e ci ammazzano. Se li accogliamo però gli americani dicono che siamo Taleban e ci bombardano le case”.

Sull'orlo di un'altra guerra
‟Io non metto in questione la presenza delle forze internazionali: però bisogna verificare cosa hanno fatto in questi 5 anni”, dice Orzala Ashraf, la fondatrice di Hawca, in una piccola sede ai bordi di Shahr-e Naw, ‟città nuova”. ‟Dovevano garantire la sicurezza della popolazione civile afghana, la ricostruzione materiale, e aiutare a costruire la polizia nazionale e le istituzioni dello stato. Invece, hanno investito davvero solo nella guerra al terrorismo, con operazioni militari che continuano a fare vittime civili. E il risultato è che quei combattenti sono più forti di anno in anno”. Nel suo ufficio al parlamento, Fawzia Koofi insiste: lo stato di diritto resta da costruire, la corruzione dilaga, e il traffico di droga. ‟Bisogna dare priorità precise allo sviluppo: strade, servizi sanitari, acqua, e poi giustizia e legalità”.
Non sarebbe meglio se le forze internazionali si ritirassero? ‟A giudicare dalla storia afghana direi che sarebbe la guerra”, risponde Orzala Ashraf: ‟Sarebbe la resa dei conti tra Taleban e i vari mojaheddin”, i comandanti della guerriglia antisovietica che poi hanno ridotto il paese in macerie nei primi anni '90 con la guerra civile: sono stati rilegittimati proprio dalla comunità internazionale con la Conferenza di Bonn che nel 2001 ha disegnato l'attuale assetto dell'Afghanistan. L'opinione della fondatrice di Hawca è ampiamente condivisa a Kabul anche tra le voci più indipendenti (non schierate con il governo Karzai, per intendersi); dalle militanti di Rawa (l'Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, che si battono per i diritti delle donne e per una democrazia laica) ai deputati indipendenti, agli attivisti per i diritti umani.
Il punto, dice Ashraf, è ridefinire lo scopo della missione internazionale. ‟Abbiamo bisogno di queste truppe: ma con un mandato trasparente e controllabile per garantire la sicurezza delle persone”. E non a guida Usa o della Nato, aggiungono molte voci indipendenti. Negoziare con i ribelli? ‟Bisogna distinguere tra i combattenti di basso livello e i dirigenti. Non credo che ci sia spazio per negoziare con Mullah Omar o con Gulbuddin Hekmatyar \ndr]. Chi ha sangue sulle mani va processato, e questo vale anche per gli ex mojaheddin che ora sono al governo, come un virus nel sistema”. Una riconciliazione nazionale però sarà necessaria, conclude: ‟Non vedo soluzione militare. Non si metterà fine all'influenza dei Taleban attraverso le operazioni militari: ogni guerra ne crea una nuova”.

Marina Forti

Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …