Tullio Kezich: Altman. Poteva essere un boss a Hollywood ma amava troppo rimanere libero

29 Novembre 2006
Mancavano 48 ore al compimento degli 81 anni di Robert Altman quando il 18 febbraio scorso la giuria della Berlinale perse l’occasione di fargli festa ignorando del tutto nel palmarès quell’incantevole imbastitura a più voci che è Radio America. Non c’è dubbio che il veterano ci rimase male, anche perché l’entusiastica accoglienza di pubblico e critica aveva fatto sperare ben altro; ma i cronisti non gli cavarono nessuna recriminazione. Altman si limitò a voltare pagina, come aveva sempre fatto. Da indomabile uomo ‟contro”, era abituato a questi incidenti: se il successo di MASH gli aveva aperto nel ‘70 le porte del grande cinema (e ci era arrivato già quarantacinquenne, dopo molti tentativi e rifiuti), si era subito giocato il vantaggio ottenuto. Avrebbe potuto imboccare la strada gratificante e lucrosa delle megaproduzioni, preferì continuare a sbrogliarsi da indipendente magari con film a basso costo, cose tratte dal teatro, robetta da outsider. Nella straordinaria fioritura di talenti degli Usa anni ‘70, in mezzo a futuri miliardari come Spielberg e Scorsese, Lucas e Coppola, non si peritò di passare per il parente povero. Come oriundo di Kansas City, il provinciale Altman era forse il più visceralmente americano di tutti, cresciuto nella tradizione hollywoodiana dei generi: ma quando si risolveva a fare un western (I compari), un noir (Il lungo addio), un gangster movie (Gang), un film del tipo ‟buddy buddy” (California Poker), un fumetto per bambini (Popeye), li prendeva sempre da una prospettiva imprevedibile e perveniva regolarmente a qualcosa di diverso. Il tutto senza militanze ottuse e senza un deliberato gusto della provocazione. Ogni volta riuniva gli attori amici e li faceva vivere sotto i riflettori liberi (o quasi) come i pesci di un acquario: non imponeva, suggeriva, ispirava. Alle sue chiamate, i divi accorrevano felici. Nacque così quel capolavoro assoluto che è Nashville, uno dei più bei film dell’intera storia del cinema, un affresco palpitante, orecchiabile, dolceamaro, irresistibile; e anche uno specchio dei tempi, con lo sparo finale echeggiante la tragedia di Kennedy e quell’invocazione che risuona come un disperato richiamo al ‟common sense”: ‟Questa è Nashville, non Dallas!”. L’aspetto di Bob, soprattutto negli ultimi anni, era pacioso e bonario, ma dietro la maschera falstaffiana l’artista non aveva smarrito l’orgoglio della decisionalità. Come era avvenuto quando Dino De Laurentiis, una testa dura come la sua, gli aveva tolto Ragtime; o quando fu esonerato, in una sciagurata trasferta italiana, dalla regìa di Rossini Rossini. Mentre scrivo mi telefonano da una radio per chiedermi: chi sono gli eredi di Altman? Mi viene spontaneo rispondere tutti noi siamo, o dovremmo essere, gli eredi di un maestro che ci ha educati alla libertà. Un artista per cui Radio America (quella vera, quella del sogno americano) ha sempre continuato a trasmettere come ai bei dì.

Tullio Kezich

Tullio Kezich (1928-2009), autore di numerosi volumi e commediografo largamente rappresentato, è stato critico cinematografico al “Corriere della Sera”. Con Feltrinelli ha pubblicato la biografia di Fellini, Federico, nel 2002 …