Furio Colombo: Berlusconi e la piazza

04 Dicembre 2006
Davanti marciano le bandiere false dell’Udc. Il giornalista di ‟La7” domanda al manifestante che sventola la bandiera con il simbolo della Democrazia Cristiana: ‟Ma lei vota per Casini”? L’intervistato si offende. ‟Io? Casini è un casino. Io voto Berlusconi. Berlusconi è tutto per noi”. Seguono, nel corteo, i dossier della Mitrokhin con i gagliardetti abbrunati, guardati dalla folla con un po’ di sospetto, nel caso vi fossero intorno tracce del letale Polonio 210.
Poi vengono i faldoni della Commissione Telekom Serbia, cariche di documenti già sequestrati dalla magistratura, e con il ritratto dell’eroe di quella istituzione repubblicana, Igor Marini, che manda un saluto da qualche prigione o ‟domiciliare”. Un drappello è composto dalle majorette che, ai bei tempi, dovevano farsi vive in certi uffici della Farnesina prima di presentarsi alla Rai per firmare il contratto.
A passo più lento e con un incedere più grave, ciascuno conscio di essere un simbolo, viene avanti un vasto gruppo di inquisiti che fanno ala all’indomito signore dei Processi, il sen. Dell’Utri. Sfilano in un sventolio di citazioni, avvisi di garanzie, intercettazioni. Hanno l’aria deferente di dire: ‟Certo, siamo inquisiti, citati, processati, condannati, ma chi siamo noi a confronto con il nostro capo Silvio Berlusconi, che quanto a numero di incriminazioni e di assoluzioni per decorrenza dei termini o per cambiamento della legge nel corso del processo è alla testa di tutti noi”.
Prima della marcia di Roma, i processati e processandi si sono fermati a rendere omaggio ai colleghi e sodali caduti in prescrizione (una piccola folla destinata ad aumentare nei prossimi mesi), ai miracolati dell’indulto che ha messo al sicuro i reati finanziari, al miracolato della Cassazione, per grazia appena ricevuta, con la probabile motivazione ‟chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”, arguta canzone napoletana di viva attualità che avrebbe potuto essere inclusa fra gli inni del corteo.
Numerosi i proprietari di Suv, le immense vetture super inquinanti che occuperebbero quattro posti in ogni parcheggio, ma che preferiscono la doppia e la terza fila, se possibile in curva, se è possibile nei pressi di un ospedale, funzionando da blocca ambulanza.
Numerosi, nella folla, gli indignati all’idea di pagare le tasse. Cinque anni di non governo basato sul motto con Biscione rampante ‟Ciascuno si faccia gli affari suoi. Il vero patriottismo è nelle mie tasche”. Ma l’importante è sventolare la bandiera. Più è lunga, più sono patriottico. Più sono patriottico più posso accusare ‟il nemico” (non il nemico in guerra, ma il nemico politico) di essere contro i soldati e di averli ‟abbandonati”. Più è lunga la bandiera e meno devo spiegare per che cosa esattamente sono morti i trentanove giovani italiani che non sono mai più tornati a casa, lasciando soli famiglie e bambini di cui nessuno di loro (lo dicono le madri e le mogli) si è mai più occupato. Più è lunga la bandiera più copre le tasse.
Con grazia una signora con l’aria di una maestra buona dice, su un pullman che la sta portando alla manifestazione patriottica: ‟Io sono contro Prodi perché ci ha il pisello troppo piccolo”. E mostra con il dito quanto piccolo. Con consueta e gagliarda disinvoltura Totò Cuffaro dice da Palermo, dove avviene la manifestazione divisa dell’Udc: ‟Non siamo divisi. Abbiamo un minimo come multiplo”. Breve pausa, forse lui stesso è stupito del concetto forte ma oscuro. Come un ricercatore del Cnr che sa di avere usato un linguaggio troppo scientifico, si sposta a un livello più popolare. Afferma senza imbarazzo: ‟Questo governo sta affamando l’Italia”. Evoca l’idea che sia finita la distribuzione delle minestre e che non ci sia più legna o carbonella da portare a casa, come nei primi anni del Soviet.
Sa di poterlo fare. Lo hanno fatto per cinque anni. Infatti sono qui per questo. Sono in piazza perché non è facile svegliarsi di soprassalto per scoprire che non era vero niente, che tutti i telegiornali e gran parte dei giornali avevano scherzato, che non ci sono grandi opere, non esiste e non può esistere il ponte di Messina, che la trovata della Moratti di annunciare decine di nuovi licei, con varie specialità, costa la carta e le fotocopie del ministero della Pubblica Istruzione, che la crescita della occupazione era dovuta alla parziale messa in regola di centinaia di migliaia di immigrati, che le ‟36 grandi riforme” sono difficili persino da ricordare a memoria, per non dire della realtà, in cui nulla resta perché nulla è accaduto. E che persino le peggiori ferite, come la cosiddetta ‟riforma costituzionale” sono state cancellate dal voto popolare e da un numero di voti (raccolti a cominciare dall’impegno dell’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro) alquanto più grande della ‟folla del pisello” di piazza San Giovanni. E che tutte le altre leggi erano solo parte della grande offensiva del premier di allora contro i suoi processi.
Questa piazza è una immensa crisi di astinenza dal mondo immaginario fermato un istante prima che l’Italia precipitasse fuori dall’Europa, fuori dall’euro, e dentro il buco nero del debito pubblico senza fine. Quanto sia stato grave il pericolo per l’Italia lo dicono le voci nette e preoccupate di tutti gli enti europei e internazionali dalle agenzie di rating che hanno declassato l’Italia, le voci che avvertono: il segnale d’allarme sui conti dell’Italia continua, fino a che un modo responsabile di fare i conti (e di rendere conto, comprese le decisioni sgradevoli) cominceranno a dare frutto.
Certo l’alleanza fra chi non ha mai pagato le tasse, chi non intende pagarle e chi crede in buona fede (sotto la dittatura dei media del padrone, che ha spavaldamente controllato tutto il pubblico e tutto il privato delle comunicazioni) che il niente pieno di spettacolo messo in scena da Berlusconi (‟Adesso l’Italia conta nel mondo”; ‟gli ambasciatori d’ora in poi saranno valutati a seconda di quello che vendono”; ‟Ho portato Putin da Bush, è il nuovo alleato”) fosse qualcosa che accadeva davvero, produce una bella folla. Una rabbia sincera per l’idea, anche solo l’idea di pagare le tasse, una volta che si allea col vero stupore di trovarsi in un mondo reale con debiti veri, buchi veri, vuoti di cassa veri, evasione vera e nessuna (nessuna) riforma, non può che dare luogo a un grande spettacolo.
Ed ecco la parola. Ecco la vendetta di Berlusconi.
Non può dire ve lo faccio vedere io il governo.
Ma è tutto suo il privilegio di dire: ve lo faccio vedere io lo spettacolo.
* * *

Lo spettacolo ha le sue regole, e chi le conosce meglio del grande impresario che per cinque anni si è travestito da statista? Una delle regole è la volgarità, come si vede da tutto il cinema di serie B.
Sentite la domanda squisitamente politica di un collega giornalista allo statista Borghezio (Lega Nord): ‟Ce l’avete duro? Ce l’avete ancora duro?”.
Ma l’altra regola è impossessarsi dello spettacolo in modo da occuparlo tutto, senza misericordia per gli attor giovani che fanno parte della stessa compagnia.
Con un discorso vagamente funebre (come a riprendere l’ultima frase di Montecatini ‟vi lascio in eredità..”) vagamente mussoliniano (le stentoree ripetizioni, le frasi dette ciascuna come se fosse l’ultima, ma anche portatrici di verità mai prima ascoltata) e, in modo più netto, sudamericano dell’altro secolo, Berlusconi ha parlato per primo. Ha parlato per un’ora, ha frugato in ogni angolo del non immenso spazio mentale della Casa delle Libertà, ha eliminato ogni possibile spunto o argomento, in una parola ha stroncato soprattutto Fini che ha avuto un decimo di applausi e a cui è restata come unica frase originale: ‟Sapete perché le bandiere della sinistra sono rosse? Perché sono rosse di vergogna!”). Berlusconi ha occupato la piazza ed esaltato la folla con i seguenti argomenti: il sequestro delle risorse; una società prospera e autonoma (ovvero libera dalle tasse); governo contro la proprietà; oppressione fiscale; oppressione giudiziaria; oppressione ideologica (dei comunisti, da Prodi a Parisi); l’invidia sociale; l’odio sociale; la difesa del patrimonio.
Si è spinto a invitare alla ribellione ‟come hanno fatto gli americani per la tassa sul tè nel porto di Boston nel 1773”. Ha rassicurato Chiesa e Forze armate, come si fa prima di ogni bene organizzata rivolta. Ha confermato che, sotto la guida del suo ministro dell’Interno, ci sono stati brogli gravi e sistematici alle elezioni (ma s’intende, dei comunisti). E ha fondato il partito della Libertà.
Per farlo ha stroncato anche il povero Bossi, a cui sono rimasti sette-otto minuti e una manciata di applausi. L’evento ha ricordato un famoso scontro nelle elezioni primarie americane del 1979, fra Ronald Reagan e George Bush, quando Reagan ha afferrato il microfono all’inizio di un dibattito e ha detto: ‟Questo microfono l’ho pagato io e ci parlo io!”. Berlusconi ha dato all’evento persino i titoli di coda. E l’elenco delle varie formazioni del ‟partito liberale” della libertà, che lui stesso ha scandito, imbarazzerebbe chiunque in Europa. La famiglia comprende: Alessandra Mussolini (‟Meglio fascista che frocio”); Romagnoli della Fiamma Tricolore (e dalle non remote parentele stragiste). Oltre alla Lega Nord di Borghezio e Gentilini e dell’urina di maiale versato sul terreno della moschea di Lodi. E tutto ciò è stato illustrato dalla frase: ‟Siamo un fronte unito e compatto, non come loro” (i comunisti, dalla Binetti a Prodi).
* * *

Se tutto ciò dovesse avere un reale sbocco politico sarebbe preoccupante. Nel momento in cui gridi in una piazza a centinaia di migliaia di persone inviperite per le tasse (lui dice ‟due milioni”) ‟Viva la libertà”, vuol dire che una spallata è necessaria, a qualsiasi costo e subito, perché la libertà è stata negata.
Berlusconi ha fatto un poderoso discorso nel vuoto.
La sola libertà che ha definito con chiarezza è quella del profitto e del patrimonio. Avrà certo i suoi sostenitori. Ma è dubbio che un intero Paese si possa scatenare per la ricchezza di alcuni.
Allora? Allora la storia italiana è giunta a un capolinea, dove vige un lungo sciopero dei mezzi di trasporto politici. Sommate tutte le cose dette (forse con qualche fatica, dunque con dedizione) di Berlusconi non resta niente.
O meglio, resta solo la frase: ‟La vostra presenza qui ha bandito la malinconia del tramonto”.
Quella malinconia però gira nel Paese. Non si chiama tramonto. Si chiama solitudine. Il resto del Paese, che non era a scalmanarsi in quella piazza, avrà voltato la testa per dire a chi governa (e verso il quale non ha tremendi verdetti di condanna, se non altro perché la famosa legge finanziaria non la conosce ancora nessuno): ‟Ci dite una parola? Quanto è difficile la situazione? Quanto è dura la rimonta? Quanto è lungo il periodo difficile? Quanto è grave (o è stato grave) il rischio?”.
E anche: ‟Si potrebbe essere rassicurati da poche voci chiare?”
Abbiamo capito tutti che questo governo, serio e impegnato in una missione drammatica, ha giurato che mai e poi mai si abbandonerà a spettacoli come il ‟Berlusconi show” del 2 dicembre, che mai praticherà il governo ‟liberale degli affari propri” coperto dal grande spettacolo virtuale e impacchettato nella bandiera.
L’abbiamo capito e apprezzato. Ma il contrario dello spettacolo non è il silenzio.
C’è una piazza piena di italiani desiderosi di partecipare. Chiedono che cosa devono fare. E in cambio di che cosa. Avranno risposte oneste, vere e di buon senso, lo sanno. Ma hanno diritto di averle, quelle risposte, e le aspettano.
L’altra Italia, quella civile, europea, democratica non ruba bandiere, microfoni, scena e invenzioni virtuali. Sa che ognuno deve fare la sua parte e che il grande lamento è imbarazzante. Ma, a intervalli ragionevoli, questa Italia deve avere una voce.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …