Renato Barilli: Venezia non è solo quella del “chiaro di luna”

11 Dicembre 2006
La Casa dei Carraresi, a Treviso, è stata la prima sede delle imprese curatoriali di Marco Goldin, concepite per strappare un vasto consenso di pubblico. Poi sono intervenuti dissapori tra l’organizzatore e la Fondazione Cassamarca, dispensatrice dei fondi necessari, e così Goldin è emigrato a Brescia, dove continua con maggior vigore nelle sue operazioni di massa, però il luogo di partenza non si è arreso e ora ospita mostre meno clamorose ma più precise e stimolanti, come per esempio l'attuale, Venezia ’900, a cura di un eccellente studioso, Nico Stringa (fino all’8 aprile, cat. Marsilio). Come sempre, il sottotitolo chiarisce meglio gli intenti, agitando due terminali di grande peso, ‟Da Boccioni a Vedova”. A questo modo il numero uno dei Futuristi ritorna in scena, in parallelo con la mostra che gli dedica il Palazzo Reale a Milano, ma quest’ultima occasione ha il torto di troncare netto sul lungo, affannoso, ma anche significativo, illuminante primo tempo del grande artista, cogliendolo solo nei massimi traguardi, mentre la mostra di Treviso, per fedeltà ai propri limiti geografici, lo esamina nelle consistenti tappe anteriori, consumate a Padova e appunto a Venezia, quando Boccioni è senza dubbio ancora legato a temi di dimesso respiro postimpressionista, ma già li affronta con la sua tipica grinta. Pertanto, una veduta del Canal Grande, in sé banale, quasi come cartolina illustrata, ne fa una sorta di torbido serbatoio d’acqua già portata a ribollire, come se si stesse tramutando sotto i nostri occhi in ‟acqua pesante”. E alcuni disegni e ritratti dedicati all’amatissima madre la mutano in una sorta di fonte energetica, di girandola dinamica.
La sapiente regia di Stringa alterna, nel percorso, delle ‟stazioni” monografiche, sul tipo della stanza riservata a Boccioni, ad altre di gruppo, come quella in cui è raccolta una sostanziosa rappresentanza degli ‟Artisti di Ca’ Pesaro”, cioè di coloro che esponevano proprio a Ca’ Pesaro, dove potevano manifestare ardenti bollori, cui invece una Biennale anzi tempo ingessata non era disposta a prestare attenzione; anche se pure i ‟capesarini”, come vennero denominati, non si negavano certo agli influssi della grande stagione decorativa viennese, emanante dall’alto esempio di Gustav Klimt. Ecco così i mosaici sfavillanti di Vittorio Zecchin e di Teodoro Wolf Ferrari, mentre anche il giovane Felice Casorati, prima di andare a stabilirsi nel suo luogo d’elezione, Torino, in quel momento compila ardenti stoffe policrome, entro cui poi inserirà le sue gonfie sagome plastiche. Ma il copione prevalente, presso i capesarini, consisteva in un vigoroso espressionismo nostrano, di fiancheggiamento dei Fauves francesi, come risulta dagli alberi attorti di Umberto Moggioli, e più ancora dai preziosi interni di Mario Cavaglieri, che però gemono sotto il peso quasi reale delle stoviglie e dei ninnoli gravanti sui tavoli. Ma il maggiore dei nostri efficaci Fauves merita un omaggio monografico, qual è quello apprestato per Gino Rossi e per le sue movenze volutamente rozze, sommarie, ma forti, essiccate fino all’osso.
E così via, la mostra prosegue alternando sapientemente i ‟pianerottoli” comunitari ad altri in uso di monolocali. Un denso omaggio lo merita indubbiamente Filippo De Pisis, che nei suoi industriosi peripli alla ricerca di paesaggi da registrare con pronto sismografo non evita la Laguna, al pari di Parigi o delle punte aguzze delle Dolomiti; e siamo allo spettacolo dei vibranti lacerti che l’artista ferrarese ottiene quasi applicando ‟a strappo” le sue tele, i suoi fogli, sui tratti di realtà che lo abbiano stimolato al rilevamento. Il che, a ben vedere, è procedimento non molto diverso dai ‟toccato e fuga” cui si dà anche Pio Semeghini, ma così leggeri, che quasi si cancellano sotto i nostri occhi, come venissero redatti con inchiostro simpatico. In contrapposizione al tocco lieve di Semeghini l’ambiente veneziano propone subito le immagini forti, tornite nella cera, o intagliate nel legno, di Cagnaccio di San Pietro, ormai pienamente riscattato dalla casella di un passivo mimetismo in cui sembrava dover essere racchiuso. Oggi invece Cagnaccio ci appare nelle vesti di principale protagonista di un nostro Realismo magico, all’insegna del ‟più vero del vero”.
Un’attenzione monografica non poteva mancare di essere prestata all’artista veneto di più lungo corso e di più dialettiche capacità, nel trascorrere dalle due alle tre dimensioni, da un brutale ‟schiacciato” che spappola le forme sul piano, a un’insufflazione improvvisa di materia che gonfia quelle pelli, quegli otri, dando loro una straordinaria plasticità. Alludo evidentemente allo scultore principe della prima metà del secolo, Arturo Martini. Ma fin qui i veneziani, autoctoni o trasferiti sulla Laguna, si aggirano attorno alle spoglie della vecchia figurazione ottocentesca. Venezia però, quasi stanca di apparire come la città oppressa sotto il ‟chiaro di luna” marinettiano, si riscuote, nel secondo dopoguerra, e ospita i fatti più clamorosi di un’Italia rinata alla vita internazionale, e proprio sui suoi canali si celebrano un episodio dinamico quale il Fronte nuovo delle arti, di cui superbo protagonista, degno quindi di un omaggio particolare, è colui che ci ha appena lasciato, Emilio Vedova.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …