Renato Barilli: Cose e colori: tutto è piatto nel mondo di Magnelli

09 Gennaio 2007
Nel panorama dei musei italiani dedicati al contemporaneo un posto di spicco è stato assunto dal Palazzo Magnani di Reggio Emilia, gestito dalla Provincia, con direzione affidata a Sandro Parmiggiani. Già mi è capitato di recensire positivamente talune retrospettive che vi si sono viste, dedicate per esempio a Daniel Spoerri e ad Arnaldo Pomodoro. Ora è la volta di Alberto Magnelli, l'artista che in una lunga esistenza (1888-1971) ha saputo cucire assai bene tra loro i poli della natia Firenze e di Parigi (a cura di Daniel Abadie, fino all’11 marzo, cat. Skira).
La genialità di Magnelli si è manifestata soprattutto in una scelta istintiva per lo schiacciamento delle forme sulla superficie, per un culto pressoché ossessivo della soluzione detta dell’à plat. Il nostro artista «fa piatto» per propensione congenita fin dalle prime prove giovanili, per esempio negli autoritratti che abbozza sui vent’anni, calcando sul profilo esterno del proprio volto, e invece svuotandolo di contenuti materici. In un certo senso, nella sua produzione è come se un bulldozer implacabile passasse su cose e figure, riducendole invariabilmente ad altrettante «sottilette». Per questa ragione non gli fu certo possibile aderire alle complicazioni volumetriche care al nostro principale movimento sperimentale, il Futurismo, o lo accettò parzialmente, nella versione ridotta che ne diedero i suoi concittadini, Soffici e Rosai. Erano i tempi di Lacerba, e infatti uno dei dipinti realizzati da Magnelli, in un anno per lui magico quale il ’14, inalbera i tipici caratteri che formavano il titolo di quel foglio provocatore. Del resto, a ben vedere già il futurismo particolare di quei cultori toscani tendeva a spianarsi sulla superficie, quasi costeggiando la lontana impresa dei cugini Cubisti, quando il duo Picasso-Braque svolgeva la fase detta «sintetica», e tracciava profili, piante filiformi. Ma il duo Soffici-Rosai aveva il torto di recuperare temi e oggetti di sapore locale, al limite del folclorico: infatti in quelle loro mappe occhieggiavano fette di cocomero, bicchieri rustici, cibi poveri e rurali. Senza dubbio anche Magnelli segue i due concittadini in questa sorta di cartellonistica, degna del richiamo di osterie fuori porta. Solo che, come già detto, il suo bulldozer è davvero implacabile, se si abbatte su ciottole, tazze e bottiglie, queste si trovano inevitabilmente ridotte a cocci, a frammenti, assorbiti entro una planimetria che non perdona. Ma c’è di più: Magnelli accompagna questo suo esercizio di riduzione in pianta con un colorismo altrettanto sicuro, privo di quelle imperfezioni di stesura che rendono tremanti le icone dei compagni di avventura. Il Nostro, invece, sembra pretendere di «verniciare alla fiamma», si direbbe oggi, quei miseri oggetti ancora legati a una civiltà contadina, come se in realtà fossero già tradotti nelle lamiere delle auto o di altri oggetti della civiltà industriale.
In quegli anni soggiorna stabilmente sulla Senna, nella Ville Lumière, dove gli si attribuiscono frequentazioni di alto bordo, con Picasso e gli altri Cubisti, ma proprio non si vede in che cosa egli si innesti sul loro discorso: semmai, una possibilità di confronto va in direzione di Matisse, ma anche in questo caso scatta la differenza, come con gli amici rimasti a Firenze: il francese ha ancora tremori di mano, nelle sue stesure, peraltro provvidi, affascinanti, nell’apparente trasandatezza, mentre il Nostro procede con un perfezionismo degno di una tinteggiatura industriale, che oggi si direbbe affidata ai colori acrilici.
Viene poi, per tutti, la stagione del pentimento, ovvero il «richiamo all’ordine», cui sacrificano anche coloro che si erano mostrati più temerari nella fase precedente, da Picasso a Severini. E pure Magnelli, negli anni ’20, concede qualcosa, a questo umore del tempo, conferendo un po’ di rilievo plastico, alle sue superfici estenuate, trasformandole in frammenti di lapidi, mentre anche i contorni assumono le forme nobili di qualche divinità propiziatrice. Ma appena possibile, e cioè all’arrivo degli anni ’30, egli balza fuori da quel rifugio nel passato, i profili di dee o di ninfe se ne vanno, resta solo un repertorio di pietre aguzze, sbrecciate. Da quel momento in poi egli opta per la scena francese e si pone in prima fila nel condurre la stagione dell’astrattismo geometrico, in quanto sparisce quel poco di spessore delle pietre, restano solo limpidi tratti arcuati, quasi emissioni di onde. È il momento in cui egli si getta a capofitto a praticare un’accoppiata, Abstraction-création, o a farsi capofila delle cosiddette Realités nouvelles, che sono poi le avventure di una geometria pura, euclidea, quella stessa che sta per essere condannata dall’Informale, partorito dagli sconquassi della seconda guerra mondiale.
Ma scatta a questo proposito una seconda risorsa di Palazzo Magnani, quella di potersi valere dello spazio nobile del Palazzo dei Principi, nella vicina Correggio, dove infatti troviamo esposti i collages e le prove polimateriche cui Magnelli affida, dal ’40 in poi, i suoi sicuri colpi di forbice, inferendoli su cartoni ondulati, carte arabescate, stoffe ricamate, talvolta introducendo nell’opera elementi reali, quali foglie, rami, ventagli. E così egli tende la mano, in una fertile staffetta, ai vari esercizi assemblagisti che domineranno la seconda metà del secolo.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …