Giorgio Bocca: Il bollito sempre cotto al punto sbagliato
26 Gennaio 2007
Sbagliano gli zelanti utopisti di un mondo degli eguali a togliere i crocefissi dalle scuole e dai cimiteri pensando che quel simbolo ostacoli la parificazione del genere umano, dovrebbero togliere le banconote e le azioni, cioè i segni della diversità del censo, del capitale, ben più profondi e duraturi.
E sbaglia il sommo pontefice quando afferma che l'immigrazione dai paesi poveri a quelli ricchi è comunque un bene. È necessaria anch'essa. Nel senso che al momento appare inevitabile, ma su questo tema anche il pontefice non può richiamarsi alla infallibilità, neppure lui può dire se è un bene o un male.
Se si sta al presente di una Italia invasa dall'ondata migratoria, verrebbe di pensare che la sola cosa certa è che la conoscenza del nostro Paese, della sua società, della sua civiltà è fortemente diminuita, che viviamo in un limbo sociale in cui due popoli l'un l'altro sconosciuto si fronteggiano, si sopportano e per comune decisione dichiarano di essere assimilati se non eguali. Ma non è vero.
Milioni di italiani che hanno assunto una cameriera straniera quasi sempre del mondo povero hanno in pratica abbandonato in tutto o in parte il modo di vivere italiano, la cucina italiana, il modo di cuocere, condire, friggere, mettere in savor, conservare, insaccare, tagliare.
Le mutazioni, le mediazioni, che furono nel passato delle città marinare, vennero accettate gradualmente, circondate da difese insuperabili. Si pensi alle cucine padane in gran parte intatte nonostante la vicinanza di porti come Genova o Venezia.
Con l'immigrazione di massa va scomparendo, per dire, la conoscenza della cottura: avrò cambiato in questi anni sei o sette immigrate ai fornelli, ma un bollito cotto da bollito, piemontese o emiliano, non l'ho più mangiato, sempre stopposo, sempre cotto al punto sbagliato. Non c'è cuoca del mondo povero che rinuncia ai suoi condimenti forti e tenaci. Pesti indimenticabili di agli e radici schiacciate, cucine che odorano di Oriente e di Perù, magari piacevoli, ma stranieri. Questa mescolanza culinaria che nei ristoranti di lusso può sembrarti una scoperta, un piacere per pochi, ma che sparsa e presente in ogni cucina del tuo paese è un fastidio.
Con l'immigrazione di massa è scomparsa nelle nostre case l'idea di servizio: fra i padroni e le buone cuoche, i buoni camerieri, c'era questo denominatore comune del servizio, per cui un buon pranzo, una buona tavola, un buon vino dovevano essere serviti nel migliore dei modi da parte di tutti, padroni e servitori, e non come ora qualcosa che riguarda solo i primi. E chi andava a servizio in breve si sentiva parte della famiglia, non come gli immigrati che pensano solo e giustamente ai loro interessi, a salire rapidamente la scala delle retribuzioni e del tempo libero. E anche questo è necessario, inevitabile ma meno piacevole e non è affidabile come la tata che ti veniva in casa da ragazza.
C'è poi l'aspetto più sgradevole e più importante: che il popolo degli immigrati a stragrande maggioranza non si integra, non vuole integrarsi, scopre che nei difetti siamo simili a lui, nelle virtù spesso inferiori e si tiene sempre una porta aperta per il ritorno, i costumi, come la religione, sia il continuare a vivere fra di loro, sia il sogno di tornare a casa arricchiti.
È indubbio che gli immigrati li lasciamo venire perché ci fanno comodo, fanno i lavori peggiori, gli orari più duri, ed è indubbio che quanto a insofferenze, soprusi, violenze siamo noi i padroni di casa, i maggiori colpevoli, ma ciò non toglie che, tirate le somme, la nostra società sia peggiorata, sia più egoista, più violenta ed ecco la ragione di fondo per cui anche noi non la amiamo questa umanità forestiera. Le traduzioni non hanno sostituito le invasioni che sempre invasioni sono.
E sbaglia il sommo pontefice quando afferma che l'immigrazione dai paesi poveri a quelli ricchi è comunque un bene. È necessaria anch'essa. Nel senso che al momento appare inevitabile, ma su questo tema anche il pontefice non può richiamarsi alla infallibilità, neppure lui può dire se è un bene o un male.
Se si sta al presente di una Italia invasa dall'ondata migratoria, verrebbe di pensare che la sola cosa certa è che la conoscenza del nostro Paese, della sua società, della sua civiltà è fortemente diminuita, che viviamo in un limbo sociale in cui due popoli l'un l'altro sconosciuto si fronteggiano, si sopportano e per comune decisione dichiarano di essere assimilati se non eguali. Ma non è vero.
Milioni di italiani che hanno assunto una cameriera straniera quasi sempre del mondo povero hanno in pratica abbandonato in tutto o in parte il modo di vivere italiano, la cucina italiana, il modo di cuocere, condire, friggere, mettere in savor, conservare, insaccare, tagliare.
Le mutazioni, le mediazioni, che furono nel passato delle città marinare, vennero accettate gradualmente, circondate da difese insuperabili. Si pensi alle cucine padane in gran parte intatte nonostante la vicinanza di porti come Genova o Venezia.
Con l'immigrazione di massa va scomparendo, per dire, la conoscenza della cottura: avrò cambiato in questi anni sei o sette immigrate ai fornelli, ma un bollito cotto da bollito, piemontese o emiliano, non l'ho più mangiato, sempre stopposo, sempre cotto al punto sbagliato. Non c'è cuoca del mondo povero che rinuncia ai suoi condimenti forti e tenaci. Pesti indimenticabili di agli e radici schiacciate, cucine che odorano di Oriente e di Perù, magari piacevoli, ma stranieri. Questa mescolanza culinaria che nei ristoranti di lusso può sembrarti una scoperta, un piacere per pochi, ma che sparsa e presente in ogni cucina del tuo paese è un fastidio.
Con l'immigrazione di massa è scomparsa nelle nostre case l'idea di servizio: fra i padroni e le buone cuoche, i buoni camerieri, c'era questo denominatore comune del servizio, per cui un buon pranzo, una buona tavola, un buon vino dovevano essere serviti nel migliore dei modi da parte di tutti, padroni e servitori, e non come ora qualcosa che riguarda solo i primi. E chi andava a servizio in breve si sentiva parte della famiglia, non come gli immigrati che pensano solo e giustamente ai loro interessi, a salire rapidamente la scala delle retribuzioni e del tempo libero. E anche questo è necessario, inevitabile ma meno piacevole e non è affidabile come la tata che ti veniva in casa da ragazza.
C'è poi l'aspetto più sgradevole e più importante: che il popolo degli immigrati a stragrande maggioranza non si integra, non vuole integrarsi, scopre che nei difetti siamo simili a lui, nelle virtù spesso inferiori e si tiene sempre una porta aperta per il ritorno, i costumi, come la religione, sia il continuare a vivere fra di loro, sia il sogno di tornare a casa arricchiti.
È indubbio che gli immigrati li lasciamo venire perché ci fanno comodo, fanno i lavori peggiori, gli orari più duri, ed è indubbio che quanto a insofferenze, soprusi, violenze siamo noi i padroni di casa, i maggiori colpevoli, ma ciò non toglie che, tirate le somme, la nostra società sia peggiorata, sia più egoista, più violenta ed ecco la ragione di fondo per cui anche noi non la amiamo questa umanità forestiera. Le traduzioni non hanno sostituito le invasioni che sempre invasioni sono.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …