Kapuscinski reporter dall'universo del dettaglio
25 Gennaio 2007
Un giorno imprecisato degli anni Cinquanta, il giovane Ryszard Kapuscinski, praticante del giornale ‟Sztandar Mlodych” (‟Il vessillo della gioventù”) espresse alla caporedattrice il proprio desiderio di vedere qualcosa di esotico come, ad esempio... la Cecoslovacchia. Più che una meta precisa era infatti l'atto stesso del varcare la frontiera, a ossessionare la mente del futuro reporter. Un caso fortunato, scaturito da una triangolazione geopolitica quasi fantasmagorica, volle che il primo paese estero visitato dal giornalista polacco non fosse la vicina consorella socialista, bensì l'India di Jawaharlal Nehru con cui la Repubblica Popolare Polacca aveva stretto di recente rapporti.
Ebbe iniziò, così, quella lunga serie di viaggi ‟etnografici o antropologici” che permisero all'irrequieto Kapuscinski di verificare in prima persona l'esistenza di mondi ‟altri”, lontani, spesso irriducibili alla nostra mentalità eurocentrica. D'altro canto, lo spostamento fisico era stato da sempre una costante nell'esistenza del reporter polacco, scomparso l'altro ieri all'età di settantacinque anni.
Nato a Pinsk (ora Bielorussia) Kapuscinski aveva trascorso un'infanzia randagia, sperimentando sulla propria pelle il destino dei profughi di quelle guerre, talora dimenticate o ignorate, che in seguito descrisse nei propri libri. Gli anni della sua giovinezza coincisero con quella svolta geopolitica e culturale che in Autoritratto di un reporter avrebbe definito la ‟creazione del Terzo Mondo”, avvenuta in seguito alla conferenza di Bandung del 1955. Da qui l'esigenza di ‟muoversi per capire”, il bisogno quasi viscerale di essere sui luoghi in cui si compie la Storia, l'ambizione intellettuale di ‟cogliere il momento preciso in cui lo sviluppo umano entra in una nuova fase”.
È interessante come in Kapuscinski l'adrenalinica curiosità del giornalista di grande levatura si fondesse con un atteggiamento scettico, se non addirittura polemico, nei confronti dei media e del loro orientarsi, in modo spesso ‟semplificato”, verso la realtà. Un tema ricorrente nelle sue ultime interviste era, infatti, quello delle ‟dolorose limitazioni” professionali del reporter, costretto a comprimere la ricchezza della realtà in un resoconto irrimediabilmente inadeguato. Questa insoddisfazione nei confronti del proprio mestiere sottendeva, peraltro, una riflessione più ampia, di carattere gnoseologico, sulla trasformazione della nostra (presunta) conoscenza della realtà, diventata sempre più il frutto di un'elaborazione collettiva, svincolata da qualsiasi forma di responsabilità individuale. Al lavorio anonimo dei dipendenti della Cnn, Ryszard Kapuscinski contrapponeva, idealmente, l'esperienza dell'École des Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre, ovvero quella fascinazione per il dato particolare, in grado di sopravvivere, curiosamente, anche al naufragio degli imperi che si credevano eterni e che in Imperium sarebbe stato personificato dalla vecchietta siberiana impegnata a ricostruire nella sua capanna di legno un'immagine meno precaria del mondo. L'esempio della nouvelle histoire spinse dunque il giornalista polacco a assumere un atteggiamento a dir poco intransigente verso le definizioni di comodo: ‟A parte la sua denominazione geografiaca, in realtà l'Africa non esiste”. L'attenzione per il dettaglio - coltivata invariabilmente in tutti i suoi reportage, dall'America Latina della Prima guerra del football (1978) all'Africa nera di Ebano (1998)- serviva inoltre a Kapuscinski per esorcizzare quella specie di ‟violenza” che il reporter, chiamato a descrivere la realtà nel suo farsi magmatico, finisce inevitabilmente con l'infliggere alla parola. ‟I miei libri sono tutti incompiuti” - ovvero superati dagli eventi storici - ammetteva il giornalista. Un rammarico, questo, che testimonia, d'altro canto, la sua sensibilità letteraria, la coscienza di avere dietro di sé la scuola polacca del reportage, genere coltivato in terra d'Africa e d'America da Henryk Sienkiewick, in lidi meno esotici da Boleslaw Prus, da Zofia Nalkowska, e da Melkior Wankowicz, testimone diretto della battaglia di Montecassino. Spesso rimproverato di non scrivere mai sul suo paese, Kapuscinski sosteneva la necessità, vitale per un polacco, di oltrepassare i propri confini nazionali, condividendo su questo punto la posizione espressa dal suo connazionale Witold Gombrowicz.
All'estero Kapuscinski trovò innanzitutto la possibilità di dedicarsi a quella nobile ‟arte del formulare domande” che nell'Imperium d'oltrecortina sembrava essere andata ormai perduta, rimpiazzata dall'‟evidenza” dell'ideologia. Da qui l'utopia di un orizzonte letterario coniugato al presente, che potesse trarre dall'interpretazione della realtà colta in presa diretta un sostentamento innanzitutto etico. Anche nella consapevolezza che, come scrive Novalis nel frammento premesso da Kapuscinski al suo recente In viaggio con Erodoto (2004), ‟ogni ricordo è il presente”.
Ebbe iniziò, così, quella lunga serie di viaggi ‟etnografici o antropologici” che permisero all'irrequieto Kapuscinski di verificare in prima persona l'esistenza di mondi ‟altri”, lontani, spesso irriducibili alla nostra mentalità eurocentrica. D'altro canto, lo spostamento fisico era stato da sempre una costante nell'esistenza del reporter polacco, scomparso l'altro ieri all'età di settantacinque anni.
Nato a Pinsk (ora Bielorussia) Kapuscinski aveva trascorso un'infanzia randagia, sperimentando sulla propria pelle il destino dei profughi di quelle guerre, talora dimenticate o ignorate, che in seguito descrisse nei propri libri. Gli anni della sua giovinezza coincisero con quella svolta geopolitica e culturale che in Autoritratto di un reporter avrebbe definito la ‟creazione del Terzo Mondo”, avvenuta in seguito alla conferenza di Bandung del 1955. Da qui l'esigenza di ‟muoversi per capire”, il bisogno quasi viscerale di essere sui luoghi in cui si compie la Storia, l'ambizione intellettuale di ‟cogliere il momento preciso in cui lo sviluppo umano entra in una nuova fase”.
È interessante come in Kapuscinski l'adrenalinica curiosità del giornalista di grande levatura si fondesse con un atteggiamento scettico, se non addirittura polemico, nei confronti dei media e del loro orientarsi, in modo spesso ‟semplificato”, verso la realtà. Un tema ricorrente nelle sue ultime interviste era, infatti, quello delle ‟dolorose limitazioni” professionali del reporter, costretto a comprimere la ricchezza della realtà in un resoconto irrimediabilmente inadeguato. Questa insoddisfazione nei confronti del proprio mestiere sottendeva, peraltro, una riflessione più ampia, di carattere gnoseologico, sulla trasformazione della nostra (presunta) conoscenza della realtà, diventata sempre più il frutto di un'elaborazione collettiva, svincolata da qualsiasi forma di responsabilità individuale. Al lavorio anonimo dei dipendenti della Cnn, Ryszard Kapuscinski contrapponeva, idealmente, l'esperienza dell'École des Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre, ovvero quella fascinazione per il dato particolare, in grado di sopravvivere, curiosamente, anche al naufragio degli imperi che si credevano eterni e che in Imperium sarebbe stato personificato dalla vecchietta siberiana impegnata a ricostruire nella sua capanna di legno un'immagine meno precaria del mondo. L'esempio della nouvelle histoire spinse dunque il giornalista polacco a assumere un atteggiamento a dir poco intransigente verso le definizioni di comodo: ‟A parte la sua denominazione geografiaca, in realtà l'Africa non esiste”. L'attenzione per il dettaglio - coltivata invariabilmente in tutti i suoi reportage, dall'America Latina della Prima guerra del football (1978) all'Africa nera di Ebano (1998)- serviva inoltre a Kapuscinski per esorcizzare quella specie di ‟violenza” che il reporter, chiamato a descrivere la realtà nel suo farsi magmatico, finisce inevitabilmente con l'infliggere alla parola. ‟I miei libri sono tutti incompiuti” - ovvero superati dagli eventi storici - ammetteva il giornalista. Un rammarico, questo, che testimonia, d'altro canto, la sua sensibilità letteraria, la coscienza di avere dietro di sé la scuola polacca del reportage, genere coltivato in terra d'Africa e d'America da Henryk Sienkiewick, in lidi meno esotici da Boleslaw Prus, da Zofia Nalkowska, e da Melkior Wankowicz, testimone diretto della battaglia di Montecassino. Spesso rimproverato di non scrivere mai sul suo paese, Kapuscinski sosteneva la necessità, vitale per un polacco, di oltrepassare i propri confini nazionali, condividendo su questo punto la posizione espressa dal suo connazionale Witold Gombrowicz.
All'estero Kapuscinski trovò innanzitutto la possibilità di dedicarsi a quella nobile ‟arte del formulare domande” che nell'Imperium d'oltrecortina sembrava essere andata ormai perduta, rimpiazzata dall'‟evidenza” dell'ideologia. Da qui l'utopia di un orizzonte letterario coniugato al presente, che potesse trarre dall'interpretazione della realtà colta in presa diretta un sostentamento innanzitutto etico. Anche nella consapevolezza che, come scrive Novalis nel frammento premesso da Kapuscinski al suo recente In viaggio con Erodoto (2004), ‟ogni ricordo è il presente”.
Ryszard Kapuściński
Ryszard Kapuściński è nato a Pinsk, in Polonia orientale, oggi Bielorussia, nel 1932, ed è morto a Varsavia nel 2007. Dopo gli studi a Varsavia ha lavorato fino al 1981 …