Furio Colombo: Ostaggi

19 Marzo 2007
Guardatevi intorno, in Italia, nelle torbide vicende di cronaca dei nostri giornali, nelle guerre che paralizzano tutte le nostre capacità di immaginare il futuro, guerre di cui non sappiamo niente e di cui dobbiamo decidere a Roma.
La parola-chiave, la parola che aiuterà gli storici a ritrovare quest'epoca, nelle ricerche cartacee e in quelle informatiche, sarà ‟ostaggi”. Rischio nell’ usare questa parola, e il concetto che esprime (essere trattenuto e usato nelle mani di altri per finalità sconosciute e quasi sempre per ragioni coperte e oscure) nel momento in cui siamo tutti in ansia per la vita di Daniele Mastrogiacomo, siamo contenti per la liberazione dei due tecnici italiani dopo tre mesi di prigionia in Nigeria, siamo impegnati (almeno alcuni di noi) a fare il possibile per la liberazione dei tre giovani soldati israeliani che, da ostaggi, sono scomparsi ormai da mesi senza un filo di contatto o di notizie, nelle retrovie cieche di Hezbollah e di Hamas.
Mi rendo conto di quanto sia parziale, unilaterale e povero questo elenco. E di quanto grande sia il pericolo o di non soluzione o di ripetizione in rapide, torbide sequenze di eventi uguali a quelli per cui siamo o siamo stati col cuore in gola. Dobbiamo tenere conto del fatto che vi sono altri trentanove gravi sanguinosi conflitti aperti nel mondo, di cui sappiamo poco (Darfour), non ci interessiamo se non con note di diplomatiche (Somalia, Etiopia, Eritrea) o per niente (Miammar-Birmania) dove un premio Nobel, la signora Aung Dawn San Suu Kyi viene tenuto in ostaggio dal banditismo locale, detto "governo", dopo che avere vinto elezioni democratiche vent'anni fa. E in Colombia la candidata presidenziale Betan-court prigioniera della guerriglia da due anni senza notizie.
Ma se, da registi imprudenti, allarghiamo l'inquadratura e cerchiamo di vedere di più, di vedere che cosa c'è intorno a ogni singolo fatto su cui ogni volta si fissano angoscia e attenzione, ci accorgiamo che c'è di più, c'è dell'altro, una vera sindrome. Ricorre sempre la stessa parola chiave: ostaggio. P
enso a un titolo del New York Times del 16 marzo: «Il congresso democratico intende finire la guerra in Iraq ma non vuole assumersi la responsabilità di ritirare i soldati». Penso a una testimonianza di Valerio Pellizzari, del Messaggero, che il New York Times ha pubblicato nella pagina dei commenti, lo stesso giorno.
Con il primo articolo il quotidiano americano ci racconta del Parlamento del Paese più potente del mondo che assiste alla sua sconfitta in imprese militari sbagliate (le ragioni ormai ce le hanno dette gli esperti, soprattutto quelli americani) perché è tenuto fermo, bloccato, ricattato (dunque in ostaggio) nella gabbia degli errori commessi, che sono pur sempre opera del presidente, delle leggi dei generali degli Stati Uniti.
Intanto migliaia di soldati sono morti o stanno morendo senza alcun risultato (e decine di migliaia di civili), e tutti vengono usati come materiale di scambio, cioè come ostaggi. O sostenete la guerra o siete colpevoli di abbandono. Perché a quel punto, vi dicono, i morti sarebbero morti invano. Sostenerli vuol dire mandarne a morire altri. Ma chi è tenuto in ostaggio ha gli occhi bendati e alla fine tende a sottomettersi.
Con il secondo articolo il giornalista italiano offre al pubblico americano una lettura inquietante dell'Afghanistan: tutto ciò che sta avvenendo, era già avvenuto al tempo delle truppe sovietiche, il cui esito tragico conosciamo. Pellizzari nota l'uso continuo di potenti incursioni aeree anche su regioni teoricamente "liberate", dove vengono distrutte - oltre alle vite umane dei civili (trasformando in nemici anche gli amici) - le nuove costruzioni della civiltà democratica.
Posso testimoniare di molte e-mail ricevute da questo giornale in cui medici della Cooperazione italiana in Afghanistan raccontano di aver assistito alla distruzione, in potenti raid aerei notturni, di ambulatori e cliniche che le autorità locali, di giorno, avevano appena inaugurato.
Quanti sono gli attacchi aerei? In media 18 al giorno. Riferiscono gli esperti militari che sono attacchi di notevole potenza. Vero, devono bloccare nuove imminenti offensive. Certo rendono più facile l'arruolamento di nuovi insorti, dopo la distruzione di città, villaggi e raccolti.
Una vecchia frase direbbe: «prigionieri del passato». La parola adesso è «ostaggi» bloccati all'indietro da una idea di guerra e di uso delle risorse militari e della potenza che sembrano non avere alcuna relazione con ciò che realmente accade intorno, inclusa la salvezza dei civili, a cui dovremmo dedicare tutte le nostre risorse e farne, anzi, la nostra vera ragione per restare. Qui incontriamo un doppio sbarramento che ci mantiene ostaggi del prima, benché quel prima sia stato pieno di sangue. Oltre all'uso della forza militare concepita come guerra, c'è quella del patriottismo che o coincide con la forza militare o non c'è. Anzi è tradimento. In altre parole non ci può essere patriottismo senza "sostegno ai soldati". E "sostegno ai soldati" vuol dire che la guerra è il solo sbocco naturale, il solo percorso vincente. Come sappiamo, e come sanno purtroppo anche i soldati, non lo è. Nell'onesto film Nassiriya prodotto e trasmesso da Mediaset nelle sere dell'11 e del 12 marzo, i personaggi del film (cioè i soldati italiani ingiustamente vincolati agli ordini di Comandi non italiani, a generali ignari e indifferenti perché non devono rispondere delle loro strategie al Parlamento italiano) dicono continuamente: «Ma come può essere la nostra una missione di pace se siamo in guerra»? Per stare alle regole d'ingaggio i soldati italiani raccontati nel film cercano di non sparare, cercano di stabilire un rapporto umano e civile con la popolazione.
E forse non è un caso che il film si concluda con la terrificante esplosione che distrugge la "Base Maestrale". Gli ostaggi italiani di Nassiriya hanno cercato in tutti i modi di ignorare la guerra, come da ordini ricevuti. Ma nella guerra alla cui strategia non partecipano, e di cui da ostaggi, non conoscono l'andamento il fine, saltano in aria nell'edificio senza difese della "missione di pace".
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Possiamo discutere liberamente di tutto ciò al fine di fare più, di fare meglio, di fare "la cosa giusta" (per usare l'espressione del primo film di Spike Lee sulla condizione di vita bloccata dei neri americani)?
No, non possiamo, perché in Italia, siamo ostaggi del falso patriottismo, della falsa gloria militare, della falsa immagine del Paese, della falsa rappresentazione dei nostri rapporti internazionali.
Assistiamo all'irruzione (di nuovo) di una vecchia celebrazione della guerra, delle forze armate solo se e in quanto combattono, con il linguaggio del primo conflitto mondiale e del primo fascismo. Assistiamo a una invocazione di fedeltà a impegni internazionali, mentre due terzi degli elettori americani hanno già scelto un altro Parlamento e un'altra politica e attendono di eleggere un altro presidente che li porti fuori dalla guerra, e dall'isolamento rischioso in cui sono stati bloccati dal governo di guerra Bush-Cheney.
È un reclamo continuo della grandezza della nostra immagine nel mondo, quando la nostra immagine, in un mondo di potenze nucleari, può essere notata solo se è benevola, civile, capace di portare aiuto, di mediare un conflitto, di curare malattie, di dare un po' di aiuto ai bambini affamati, di essere presenti, nei paesi martoriati da scorrerie criminali come il Darfour, per il solo fatto che la presenza attiva e civile intorno a villaggi, scuole e ospedali renderebbe impossibili le scorrerie.
Immaginate la credibilità e il prestigio di un Paese che fosse primo nella costruzione di ospedali, primo nel garantire acqua potabile, primo nei medicinali a costo sostenibile, primo nella ricerca di nuove fonti di energia, primo nella protezione dell'ambiente degli inquinamenti peggiori, dalla libera e piratesca dispersione delle scorie dentro i Paesi poveri.
Possiamo discutere liberamente di tutto ciò? Non possiamo. Infatti, persino contro modeste e bene accette liberalizzazioni a vantaggio dei cittadini consumatori l'opposizione occupa la Camera dei Deputati (come è avvenuto la notte di giovedì scorso), dirotta ogni giorno il Senato e rende impossibile lavorare. Eppure si tratta di materie che, in qualunque civiltà parlamentare, sono tipicamente transpartitiche, perché non esiste (per fortuna) un partito della guerra e non c'è un partito della pace nel senso mistico e astratto che significherebbe voltare le spalle al mondo e diventare una specie di egoistica Svizzera. Esiste invece un Paese pacificamente interventista che, al momento, non può essere utile a nessuno perché è ostaggio di ciò che resta di Berlusconi. Un Paese che può essere un nuovo tipo di agente di aiuto solidale e di interventismo utile alle popolazioni civili (le vere vittime di tutte le guerre, giuste e ingiuste) perché ci dicono che siamo dannati se non partono prima i soldati. E poi altri soldati. E poi altri ancora.
Lo vedo bene che siamo ostaggi, vivendo ogni giornata parlamentare in Senato. Qualunque cosa si stia discutendo, comprese innocue multe, diventa l'occasione di un "ostruzionismo soft" in cui ognuno di loro parla a catena quanto vuole, quando vuole, profittando senza scrupoli della benevolenza del presidente del Senato che ritiene pedagogicamente utile far sfogare tutti capricci dell’opposizione. Sono dieci mesi che l’opposizione sfoga i suoi capricci impedendo il lavoro e facendone crescere i costi con il trascorrere a vuoto di ore, giorni, settimane, inutili.
Siamo ostaggi anche sulla pace e sulla guerra, sia perché il secondino ti concede solo l'opzione della guerra, pronto a distribuire le immagini vergognose di chi dissentisse dal loro tipo di patriottismo. Sia perché, proprio per non fare il gioco del secondino, che punta non al lavoro parlamentare - da qualunque punto di vista lo si voglia sostenere - ma alla caduta, la più teatrale e la più rovinosa possibile del governo Prodi - devi fare qualunque cosa pur di non dare spazio a quel loro unico violento capriccio.
È vero che fra poco - una volta eletto il nuovo presidente democratico degli Stati Uniti - i nostri oppositori saranno costretti a sostenere da soli la predicazione della guerra come salvezza del superiore mondo occidentale. Ma hanno ancora un po' di tempo per l'interventismo tipo 1915 e intendono usarlo tutto.
Per questo mi sembra una risposta intelligente la Conferenza di pace proposta (e, se necessario, riproposta fino a ottenerla) dal ministro degli Esteri D'Alema. Significa imporre che si parli della sola cosa su cui vale la pena di impegnarsi. Non su come bombardare di più. Ma su come estendere le opzioni di pace. E come allargare i territori conquistati davvero alla pace delle popolazioni civili.
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Ma la catena che ti fa vedere tutto un orizzonte popolato di carcerieri e ostaggi continua dentro quella che dovrebbe essere la vita civile italiana. Tipico della cattura di un ostaggio è il desiderio di esercitare un ricatto.
Tutta la sequenza delle vicende appena concluse in questa settimana italiana, con giudici che scoperchiano un verminaio di trappole, denigrazioni, calunnie, degradazioni, ricatti, e nomi e persone messe tempestivamente e vistosamente alla gogna, ci dicono che molti tentativi di ricatto sono in atto da parte di una attivissima Italia malata che, non potendo al momento avere il governo che desidera, si impegna a renderne impossibile un altro. Infatti il governo Prodi avrà tutti i difetti del mondo, compreso quello di irritare il vertice della Chiesa cattolica, ma non opera attraverso la illegalità. Invece ha scrupolosamente ripristinato il rispetto delle leggi.
Diciamo che la liberazione e il ritorno a casa di Daniele Mastrogiacomo è ciò che adesso tutti fervidamente desideriamo di più. Diciamo che sarà immensamente importante se la prova di una azione di governo saggia, ostinata e cauta, come la situazione richiede, avrà successo dentro il percorso umanitario e fuori dalle febbri irrealistiche della potenza. Anzi, come sembra stia accadendo, con l’aiuto di Gino Strada.
Diciamo che il ritorno al Paese, ai suoi cari, al suo giornale del bravo reporter di Repubblica potrà essere un grande segnale dal quale potrebbe cominciare la liberazione di tutti gli altri ostaggi, quelli militari, quelli politici, quelli delle vite politiche malate, nel mondo e in Italia. Sarebbe un bel programma di governo.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …