Renato Barilli: Albrecht Dürer, la figura è mobile

19 Marzo 2007
È difficile esagerare l’importanza della mostra Dürer e l’Italia, attualmente visibile a Roma, Scuderie del Quirinale (a cura di Kristina Hermann Fiore), in cui il grande maestro di Norimberga (1471-1528) porta direttamente la sfida nel cuore dell’Urbe dove, nel corso del primo decennio del Cinquecento, si sarebbero ritrovati i suoi diretti antagonisti, Leonardo e Michelangelo e Raffaello, mentre da Venezia e da Parma si sintonizzavano su quei medesimi alti valori Tiziano e il Correggio. Fu una sfida di titani, ad arbitrare la quale non vale forse al meglio una nozione generica ed abusata come quella di Rinascimento. Del resto colui che fu a posteriori il testimone e il teorico di quei fatti, Giorgio Vasari, non amava particolarmente quella formula, o ne faceva, giustamente un uso allargato. Un certo rinascimento, dell’antico mimetismo già così caro alla classicità greco-romana, era partito fin dai tempi di Cimabue e di Giotto, ma l’autore delle Vite sapeva bene che si era trattato di una vicenda lunga, passata per tante tappe intermedie, da lui definite ‟maniere”, e la prima e la seconda tra esse erano state fasi di vigilia, di preparazione ancora acerba. Ma poi era scattata la mirabile ‟maniera moderna”, aperta da Leonardo, col suo immergere i corpi in un fluido fin lì sconosciuto, l’atmosfera, da cui derivava il suo celebre sfumato, ovvero un senso di pittoricismo morbido, articolato, diffuso su ogni dettaglio, di cui Raffaello e Tiziano e il Correggio sarebbero stati gli insuperabili continuatori. Ma appunto si trattava di una vicenda tutta concentrata nel triangolo Roma-Firenze-Venezia, con appena la Parma del Correggio a fare da outsider. Tutti gli altri artisti si erano trovati in posizione di ‟fuori gioco”, all’imporsi di quella ‟modernità” così scandalosamente avanzata. Tutti? No, per questo aspetto si fece avanti proprio Dürer, a capeggiare una ‟modernità” diversamente organizzata, eppure parimenti degna dell’epiteto. Fu insomma lo scontro tra due ‟modernità”; nelle mie lezioni uso definire la via italiana al moderno come ‟bagnata”, proprio per la particolarità di trovarsi immersa nell’atmosferismo leonardesco, laddove quella düreriana, per contrasto, può essere detta ‟asciutta”, secca, affidata a un disegno tagliente, implacabile nel definire, limitare, chiudere corpi, volti, mani, ciocche di capelli. Per questa ragione Dürer fu, prima di tutto, un grande disegnatore e incisore e xilografo. Ma, questo il punto, con ciò egli non retrocedeva affatto al livello un po’ stentato e immobile delle maniere precedenti. Certo, seppe fare tesoro della lezione che gli veniva dai nostri grandi artefici della ‟seconda maniera”, sempre per dirla col Vasari, e cioè i Mantegna e Bellini e Pollaiolo. È giusto e opportuno che la mostra alle Scuderie allinei opere probanti di questi superbi maestri, su cui senza dubbio il tedesco si è abbeverato con cura. Ma poi egli sapeva imprimere a quei segni duri e taglienti certe torsioni, certi dinamismi, che non si possono qualificare altrimenti se non con l’epiteto del moderno. Si veda, in mostra, una prova eccellente come il Ritratto di giovane donna veneziana, del 1505, ora a Vienna, eseguita dal Maestro più che trentenne in un lungo soggiorno sulla Laguna. E si noti appunto come le ciocche si diramino nello spazio, stizzose, sferzanti, mentre lo sguardo, pur nella dolcezza muliebre, si fa penetrante, forante; e anche il vezzo del nastro contrae le sue spire in lamine metalliche. Siamo insomma lontani dal grave e greve staticismo dei nostri Maestri della ‟maniera” anteriore. Inoltre sono sparite, nella composizione düreriana, quelle inquadrature di finestre che contribuivano ancor più a bloccare la figura, a renderla prigioniera di uno spazio carcerario, mentre le creazioni ‟moderne” del tedesco vi si ribellano, non se ne lasciano più imprigionare. Ma forse, sempre se stiamo alle opere in mostra, il capolavoro düreriano estremo è dato da Cristo tra i dottori, 1506 (Madrid, Thyssen Bornemisza), dove le mani dei vari personaggi si torcono nello spazio, vi disegnano aeree architetture, lo rendono appunto fremente, pulsante, mentre i volti si offrono come gallerie di caratteri, di tipologie, ciascuna nettamente differenziata dalle altre. Questa è ‟modernità”, anche se mantenuta in un clima volutamente algido, ibernato.
Si noti però che allora lo scontro non fu soltanto tra un grande Tedesco e i massimi antagonisti Italiani, al contrario, la tagliente e ‟asciutta” modernità düreriana ebbe una larghissima influenza anche al di qua delle Alpi, il Maestro di Norimberga suonò un piffero magico al cui suono obbedirono il Lotto, il Savoldo, i vari Maestri del lombardo-veneto, che viceversa risultarono refrattari alla lezione ‟bagnata” leonardesca. Se si fa una questione di numeri, fu più vasta l’influenza del pittore d’oltralpe, presso di noi, che non quella dell’eletta schiera dei ‟romani”. E quando poi si levarono contro Raffaello e Correggio quei figli degeneri, o fratelli minori devianti, che furono i Manieristi, qui documentati dal Pontormo e da Polidoro da Caravaggio, ancora una volta il pifferaio d’oltralpe ebbe un seguito presso di noi, come dovette ammettere sconsolato lo stesso Vasari, pigliandosela col principale di quei ‟traditori”, il Pontormo, troppo incline alla lezione di chi era Duro due volte, di nome e di stile.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …