Fabrizio Tonello: Usa, il presidente über alles nella costituzione non c'è
03 Aprile 2007
La ‟presidenza guerriera” di George W. Bush esige dal Congresso di finanziare le guerre senza discutere. Le mozioni votate prima dalla Camera e poi dal Senato che invece legano i finanziamenti a una data per il ritiro delle truppe dall'Iraq sembrano manifestare un risveglio di volontà politica da parte dei democratici, ma è difficile dire se essa durerà. Non c'è dubbio che la tendenza a fare del presidente l'unico attore della politica estera, compreso il potere di trascinare il paese in guerra, esautorando il Congresso, sia qualcosa che nasce ben prima del 2001 ma sarebbe tempo di chiedersi se la teoria che fa della possibilità di intraprendere azioni militari contro chiunque, in qualsiasi momento, un'esclusiva prerogativa presidenziale, anzi un ‟necessario” potere presidenziale nell'epoca della guerra al terrorismo, è costituzionalmente fondata.
In un libro recente, The broken branch: how Congress is failing America, due politologi conservatori come Norman Ornstein e Thomas Mann hanno espresso forti riserve. Essi scrivono nel loro ultimo libro: ‟I costituenti volevano che fosse chiaro che il Congresso doveva essere il primus inter pares fra i tre poteri (dello stato).
L'articolo 1 (della Costituzione) è lungo il doppio dell'articolo 2, che riguarda l'esecutivo, e quattro volte l'articolo 3, sul potere giudiziario. Ogni potere ha competenze uniche, molte in sovrapposizione tra loro, ma è chiaro che in ultima istanza il Congresso può prevalere sugli altri due poteri scavalcando un veto presidenziale, modificando la composizione o la giurisdizione delle corti, sottoponendo a impeachment e rimuovendo dalla loro carica i presidenti come i giudici”.
Dai verbali della convenzione di Filadelfia traspare un largo consenso dei costituenti sul fatto che il presidente dovesse essere un esecutore dei voleri del Congresso e che le sue aree di autonomia si riducevano a due: le nomine di ministri e funzionari e il potere di veto sulle leggi approvate dal parlamento. I temi della guerra, delle operazioni militari o della conduzione della politica estera non erano affatto toccati e questo silenzio ci dice che nemmeno i sostenitori di un esecutivo forte ipotizzavano un potere autonomo della presidenza, simile a quello del re d'Inghilterra, sul terreno vitale della guerra e della pace.
Al contrario, il dibattito aveva visto un feroce assalto degli antifederalisti contro ogni ipotesi di lasciare le briglie sciolte al presidente: il delegato del Massachusetts Elbridge Gerry aveva esclamato: ‟Non mi sarei mai aspettato, in una repubblica, di sentire una mozione (favorevole) dare all'esecutivo il potere di dichiarare guerra”. La questione fu risolta da un voto pressoché unanime (il New Hampshire unico contrario) per una mozione che attribuiva al solo Congresso il potere di dichiarare guerra. E così la Costituzione stabilisce (art. I, sez. 8).
C'è di più: una lettura attenta del testo dei lavori preparatori della Costituzione indica che i delegati riuniti a Filadelfia intendevano il ruolo di Commander in chief come un compito tecnico, l'equivalente odierno del capo di Stato maggiore interforze, precisamente l'opposto dell'interpretazione ‟imperiale” dei poteri presidenziali che si è imposta nel XX secolo e si è ulteriormente rafforzata dopo l'11 settembre 2001. Al ruolo di ‟comandante in capo” non è nemmeno dedicata una sezione, o un paragrafo a sé, della Costituzione: questa responsabilità del presidente è citata nell'art. II, sez. 2, assieme ai suoi poteri di grazia e di consultazione dei ministri su materie di vario interesse.
Sono invece precisamente elencati (art. I, sez. 8) i poteri del Congresso in materia di politica estera e di difesa:
- dichiarare guerra, concedere lettere di corsa e di rappresaglia, fissare le regole riguardanti la cattura (di prigionieri o di beni del nemico) per terra e per mare;
- formare e mantenere eserciti, a condizione che gli stanziamenti a questo scopo non vadano oltre i due anni;
- fissare le regole riguardanti la condotta delle forze di terra e di mare;
- provvedere alla leva della milizia con lo scopo di metter fine alle insurrezioni e respingere le invasioni;
- provvedere a organizzare, armare e mantenere la disciplina della milizia, salvo quanto riguardi la nomina degli ufficiali e l'addestramento, che rimanevano di competenza dei singoli stati.
Questa minuziosa elencazione dei poteri politici, finanziari e perfino organizzativi del Congresso in materia di operazioni militari non può che significare una cosa: al comandante in capo è riservato un ruolo tecnico, di decisione sulla strategia e direzione sul campo di battaglia ma in nessun caso la Costituzione gli concede il potere di impegnare forze armate degli Stati uniti senza preventiva autorizzazione. Certo, può e deve agire per respingere un'invasione, ma questo fa parte del suo ruolo di militare, non dei suoi compiti politici. Del resto, in un'epoca in cui l'esercito permanente neppure esisteva, o era ridotto ai minimi termini, il potere di richiamare sotto le armi la milizia era di esclusiva competenza del Congresso: il presidente era un generale senza armata.
Alexander Hamilton, soprannominato addirittura dai suoi critici il ‟Bonaparte americano”, scrisse nel Federalista n. 69, uno dei pamphlet in cui difendeva la Costituzione dalle critiche, che il potere del presidente in quanto comandante supremo ‟sarebbe nominalmente pari a quello del re di Gran Bretagna ma in effetti assai inferiore. Non comporterebbe nulla più che il comando supremo e la direzione delle forze armate e navali mentre quello del re britannico si estende alla dichiarazione di guerra e all'arruolamento e alla disciplina della flotta e dell'esercito, - tutte cose che, per la Costituzione in esame, apparterrebbero al potere legislativo”.
Si ricordi che, per i fondatori degli Stati uniti, gli eserciti erano strumenti del sovrano, armate di parassiti che giustificavano gli aumenti delle tasse e le limitazioni della libertà. Essi temevano la tendenza alla centralizzazione insita in ogni esercito permanente, che esige un apparato burocratico vasto e costoso, con propensioni autoritarie. Per questo motivo nella Costituzione americana si trova il divieto di votare bilanci militari per una durata superiore a due anni, oggi praticamente ignorato.
Dal 1945 in poi, il principio di avere un esercito permanente minimo sarebbe stato completamente abbandonato: la Guerra fredda creò un immenso apparato militare-industriale che nessun presidente oggi potrebbe, volendo, smantellare, senza contare che nessun candidato alla presidenza con idee anche moderatamente riformatrici in questo campo ha la possibilità di essere eletto.
L'espansione dell'impero richiede forze armate sempre più grandi e sempre più costose, ma questo è in diretto contrasto con lo spirito dei Padri Fondatori a cui i neonazionalisti si riferiscono quotidianamente. Se il Senato volesse ‟tornare alla Costituzione” non avrebbe che da votare un bilancio 2008 in cui i fondi per la guerra sono azzerati: per far tornare le truppe a casa sarebbe sufficiente.
In un libro recente, The broken branch: how Congress is failing America, due politologi conservatori come Norman Ornstein e Thomas Mann hanno espresso forti riserve. Essi scrivono nel loro ultimo libro: ‟I costituenti volevano che fosse chiaro che il Congresso doveva essere il primus inter pares fra i tre poteri (dello stato).
L'articolo 1 (della Costituzione) è lungo il doppio dell'articolo 2, che riguarda l'esecutivo, e quattro volte l'articolo 3, sul potere giudiziario. Ogni potere ha competenze uniche, molte in sovrapposizione tra loro, ma è chiaro che in ultima istanza il Congresso può prevalere sugli altri due poteri scavalcando un veto presidenziale, modificando la composizione o la giurisdizione delle corti, sottoponendo a impeachment e rimuovendo dalla loro carica i presidenti come i giudici”.
Dai verbali della convenzione di Filadelfia traspare un largo consenso dei costituenti sul fatto che il presidente dovesse essere un esecutore dei voleri del Congresso e che le sue aree di autonomia si riducevano a due: le nomine di ministri e funzionari e il potere di veto sulle leggi approvate dal parlamento. I temi della guerra, delle operazioni militari o della conduzione della politica estera non erano affatto toccati e questo silenzio ci dice che nemmeno i sostenitori di un esecutivo forte ipotizzavano un potere autonomo della presidenza, simile a quello del re d'Inghilterra, sul terreno vitale della guerra e della pace.
Al contrario, il dibattito aveva visto un feroce assalto degli antifederalisti contro ogni ipotesi di lasciare le briglie sciolte al presidente: il delegato del Massachusetts Elbridge Gerry aveva esclamato: ‟Non mi sarei mai aspettato, in una repubblica, di sentire una mozione (favorevole) dare all'esecutivo il potere di dichiarare guerra”. La questione fu risolta da un voto pressoché unanime (il New Hampshire unico contrario) per una mozione che attribuiva al solo Congresso il potere di dichiarare guerra. E così la Costituzione stabilisce (art. I, sez. 8).
C'è di più: una lettura attenta del testo dei lavori preparatori della Costituzione indica che i delegati riuniti a Filadelfia intendevano il ruolo di Commander in chief come un compito tecnico, l'equivalente odierno del capo di Stato maggiore interforze, precisamente l'opposto dell'interpretazione ‟imperiale” dei poteri presidenziali che si è imposta nel XX secolo e si è ulteriormente rafforzata dopo l'11 settembre 2001. Al ruolo di ‟comandante in capo” non è nemmeno dedicata una sezione, o un paragrafo a sé, della Costituzione: questa responsabilità del presidente è citata nell'art. II, sez. 2, assieme ai suoi poteri di grazia e di consultazione dei ministri su materie di vario interesse.
Sono invece precisamente elencati (art. I, sez. 8) i poteri del Congresso in materia di politica estera e di difesa:
- dichiarare guerra, concedere lettere di corsa e di rappresaglia, fissare le regole riguardanti la cattura (di prigionieri o di beni del nemico) per terra e per mare;
- formare e mantenere eserciti, a condizione che gli stanziamenti a questo scopo non vadano oltre i due anni;
- fissare le regole riguardanti la condotta delle forze di terra e di mare;
- provvedere alla leva della milizia con lo scopo di metter fine alle insurrezioni e respingere le invasioni;
- provvedere a organizzare, armare e mantenere la disciplina della milizia, salvo quanto riguardi la nomina degli ufficiali e l'addestramento, che rimanevano di competenza dei singoli stati.
Questa minuziosa elencazione dei poteri politici, finanziari e perfino organizzativi del Congresso in materia di operazioni militari non può che significare una cosa: al comandante in capo è riservato un ruolo tecnico, di decisione sulla strategia e direzione sul campo di battaglia ma in nessun caso la Costituzione gli concede il potere di impegnare forze armate degli Stati uniti senza preventiva autorizzazione. Certo, può e deve agire per respingere un'invasione, ma questo fa parte del suo ruolo di militare, non dei suoi compiti politici. Del resto, in un'epoca in cui l'esercito permanente neppure esisteva, o era ridotto ai minimi termini, il potere di richiamare sotto le armi la milizia era di esclusiva competenza del Congresso: il presidente era un generale senza armata.
Alexander Hamilton, soprannominato addirittura dai suoi critici il ‟Bonaparte americano”, scrisse nel Federalista n. 69, uno dei pamphlet in cui difendeva la Costituzione dalle critiche, che il potere del presidente in quanto comandante supremo ‟sarebbe nominalmente pari a quello del re di Gran Bretagna ma in effetti assai inferiore. Non comporterebbe nulla più che il comando supremo e la direzione delle forze armate e navali mentre quello del re britannico si estende alla dichiarazione di guerra e all'arruolamento e alla disciplina della flotta e dell'esercito, - tutte cose che, per la Costituzione in esame, apparterrebbero al potere legislativo”.
Si ricordi che, per i fondatori degli Stati uniti, gli eserciti erano strumenti del sovrano, armate di parassiti che giustificavano gli aumenti delle tasse e le limitazioni della libertà. Essi temevano la tendenza alla centralizzazione insita in ogni esercito permanente, che esige un apparato burocratico vasto e costoso, con propensioni autoritarie. Per questo motivo nella Costituzione americana si trova il divieto di votare bilanci militari per una durata superiore a due anni, oggi praticamente ignorato.
Dal 1945 in poi, il principio di avere un esercito permanente minimo sarebbe stato completamente abbandonato: la Guerra fredda creò un immenso apparato militare-industriale che nessun presidente oggi potrebbe, volendo, smantellare, senza contare che nessun candidato alla presidenza con idee anche moderatamente riformatrici in questo campo ha la possibilità di essere eletto.
L'espansione dell'impero richiede forze armate sempre più grandi e sempre più costose, ma questo è in diretto contrasto con lo spirito dei Padri Fondatori a cui i neonazionalisti si riferiscono quotidianamente. Se il Senato volesse ‟tornare alla Costituzione” non avrebbe che da votare un bilancio 2008 in cui i fondi per la guerra sono azzerati: per far tornare le truppe a casa sarebbe sufficiente.
Fabrizio Tonello
Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …