Renato Barilli: Salvo Mangione. Dalla “povertà” alla magnificenza del colore

10 Aprile 2007
La Galleria d’arte moderna di Torino dedica una retrospettiva assai importante a Salvo Mangione, artista nato nel 1947 in Sicilia ma trasferitosi quasi subito a Torino, dove ha condotto per intero e conduce tuttora la sua attività (a cura dello stesso Direttore Pier Giovanni Castagnoli, fino al 1° luglio, cat. autoedito). L’importanza della mostra sta nel fatto che permette di ripercorrere nel modo giusto gli interi anni Settanta e Ottanta del Novecento, un periodo che alquanto a torto si è voluto schiacciare e contrarre solo attorno all’emergere della Transavanguardia, venuta quasi al termine di quel decennio, e sfruttando tante premesse di cui Salvo è stato gran parte. Qualcosa di analogo è avvenuto anche attorno all’Arte povera, il movimento che ha assunto il ruolo di vero e proprio mattatore nella congiuntura precedente, attorno al mitico 1968. Ma in effetti il movimento fondato da Celant non ebbe alternative apprezzabili attorno a sé, se si eccettuano valide figure di artisti tuttavia isolati, da aggiungere alla lista come casi singoli. Invece il successivo decennio fu proprio aperto, impostato autorevolmente, guidato da un artista come Salvo, da vedere in stretta sinergia con un altro protagonista, Luigi Ontani. Poi ancora si ebbe l’intervento di un terzo personaggio quale Carlo Maria Mariani, e solo dopo, e sulla loro scia spuntarono le pur egregie personalità dei cinque della Transavanguardia (Chia-Clemente-Cucchi-Paladino-De Maria), inserendosi su talune premesse poste da quei loro fratelli maggiori. In tal senso va corretta la storiografia di quegli anni.
A conferma dell’eccellenza indiscutibile, sullo scorcio del 68, da riconoscere all’Arte povera, nella sua sede torinese, sta proprio la circostanza che Salvo compie i suoi primi passi ben all’interno di quel clima, di cui accetta, in partenza, la quasi totale proscrizione dei tradizionali mezzi pittorici. Ma bisogna subito affrettarsi a ricordare che tra i Poveristi più importanti c’era da sempre Giulio Paolini, capace di imprimere una radicale svolta al movimento, capovolgendone la direzione di marcia. Se il poverismo, nella sua vocazione principale, muoveva baldanzosamente a ipotecare il futuro, a costo di smaterializzarsi, di usare mezzi come il neon o il raggio laser o la virtù puramente mentale dei numeri e delle parole, Paolini era stato pronto a dirottare quegli strumenti verso una rivisitazione del passato e del museo. Ebbene, il nostro Salvo, sul limitare dei Sessanta e nei primi Settanta, accetta con impegno una simile direzione a ritroso nel tempo, e il merito della mostra curata da Castagnoli sta proprio nell’insistere ad oltranza su questa fase di trapasso, quando il giovane Salvo propone dei fotogrammi rubati alla cronaca di quei giorni, esibendo foto di mafiosi, o di mercenari in qualche impresa postcoloniale, o di ‟barbudos” al seguito del Che, ma immancabilmente va a inserire il suo autoritratto in questi contesti così alieni. È un marchio di riappropriazione, tra l’ironico e il narcisista, il freddo reperto documentario diviene la pagina di un diario personale. Lo stesso avviene subito dopo per certe frasi roboanti e retoriche, sul tipo di ‟Io sono il migliore”, secondo quel narcisismo sfrenato, fino all’autoparodia, di cui De Chirico era stato magnifico campione. Il ricorso alle parole fu allora uno dei mezzi nudi e scarni della congiuntura poverista, ma Salvo, seguendo la lezione di Paolini, era pronto a far scolpire quelle frasi iperboliche, volutamente intrise in un’aura passatista, da bravi scalpellini, nel marmo e con filettature dorate. Poi di seguito vennero le bandiere tricolori, infine le piantine della Trinacria e dell’Italia, inzeppate di nomi di eroi, di santi, di navigatori, come vuole il trito stereotipo che celebra le nostre virtù patrie.
Fin lì tuttavia Salvo rimaneva aderente al codice ‟concettuale” nella sua veste magra, rigorosamente negata ai piaceri dell’immagine e del colore, ma tra il ’72 e il ’73 egli ebbe il coraggio di fare il passo ulteriore, di riprendere a darci delle icone splendenti, beninteso non da ‟pentito” che ricalca i logori sentieri di un mimetismo accademico, bensì da ‟primitivo” di ritorno che rende omaggio ai secoli casti e puri della nostra pittura, per esempio di un Raffaello ancora peruginesco, avendo cura che quelle forme nette e scandite venissero dipinte con un colore denso, pronto a rivaleggiare con le tinte dei cartoni animati o dei fumetti, che così bene risaltano sugli schermi dei televisori. L’espressione di un ‟dipingere con la luce” che è bolsa e retorica in tanti casi, in quello di Salvo va presa molto sul serio, le sue tele rivaleggiano con gli schermi televisivi dove i colori giungono attraverso l’etere, senza pagare alcuno scotto alle tristi ragioni della fisicità. Approdato a questo ritrovato continente della magnificenza di forme coloratissime, Salvo lo frequenta impostando cicli su cicli, rivolti a saccheggiare tutti i temi che gli offrano dei motivi plastici, case, minareti, porticati, cavalcavia, nuvole, alberi, e anche figure umane, purchè questo repertorio possa essere modellato in pura sostanza cromo-luminare, come se il nostro artista fosse un vetraio che soffia su limpidi cristalli di Murano, o meglio ancora, un raccoglitore dei flussi eterei, degli sciami di fantasmi elettronici che solcano sempre più numerosi i nostri cieli.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …