Umberto Galimberti: Il Simposio di Platone. Tra ragione e follia

11 Aprile 2007
Il Simposio di Platone è, tra i dialoghi del filosofo di Atene, il più vertiginoso perché mette in tensione l’ordine della ragione, che Platone ha inaugurato per l’intero Occidente, con l’abisso della follia che Platone definisce: ‟Più bella della saggezza d’origine umana”. Mediatore tra l’uno e l’altro mondo è Amore il cui compito è di tradurre e interpretare i messaggi della follia inaccessibili alla ragione e le parole della ragione incomprensibili alla follia.
Folle è il mondo degli dèi che, concedendosi a tutte le metamorfosi, non si attengono al principio di identità e di non contraddizione che sono i cardini della ragione. Del resto già Eraclito aveva detto che: ‟Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma”, mentre ‟l’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra”, in una parola non mescola, come invece fa il dio, tutte le cose, ma istituisce quelle identità e differenze che, tra loro disgiunte e connesse, istituiscono l’ordine della ragione che è prerogativa dell’uomo e non del dio.
Accade però che nel Simposio Platone non considera l’anima razionale da lui inaugurata nella sola prospettiva dell’ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l’ha evocata perché conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui si è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il katharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica. Per questo, nell’edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l’abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, e perciò dice: ‟I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”.
Per Platone infatti anche la follia è un’esperienza dell’anima, nella consapevolezza che le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l’anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi. Intermediario tra il mondo della ragione e il mondo della follia è Amore, per accedere al quale bisogna soffrire quella malattia che Socrate chiama ‟a-topia” e che noi potremmo tradurre con ‟dis-locazione”. Per accedere agli abissi della follia che ci abita occorre infatti dislocarsi dal recinto protetto dalla ragione, abbandonare le dimore dell’io e, per non perdersi nella follia, occorre che ad accompagnarci sia l’amato, che noi amiamo proprio perché egli ha colto e in qualche modo riflesso la nostra follia. Amore, infatti, è sì un evento duale, ma non tra me e te, ma, grazie a te, tra il mio ordine razionale e l’abisso della mia follia.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …