Giorgio Bocca: Questa Milano tra passato e futuro
19 Aprile 2007
Non ho ancora capito se la Milano in cui vivo è quella che c'è o che c'è stata o ci sarà. Nella civiltà delle immagini tutte e tre sono presenti e connesse e comunicanti.
Vivo questa Milano come se i tre costruendi grattacieli storti del nuovo centro, visti mille volte nei dépliant e nei giornali, ci siano già e la gente guardandoli si chieda come stanno in piedi e perché mai l'architettura ultramoderna debba affidarsi a questi trucchi da baraccone, a questi trompe l'oeil, per distinguersi dal passato. E quei passanti disegnati sotto i grattacieli storti mi sembra camminino con la paura che cadano.
C'è sempre la Fiera campionaria in ricostruzione a Milano: in mezzo secolo di giornalismo sarò andato almeno cinque volte all'inaugurazione della nuova Fiera, l'ultima quest'anno, lontanissima, dalle parti dell'autostrada per Torino, spuntata da una sera a un mattino come una fungaia: all'architetto devono piacere i funghi, gli edifici bianchi sono a forma di funghi cresciuti in mezzo ai campi. Ci arrivano strade, autostrade e ferrovie e non capisci quali per andare e quali per tornare. C'è solo il Duomo a Milano che non si muove mai dalla piazza dove c'era la darsena in cui scaricavano le barche con il marmo di Scandoglia e anche dall'areo il Duomo è subito riconoscibile, piantato nel centro.
Le grandi città sono sempre state in costruzione perenne: il divo Augusto trovò Roma di mattoni e la rifece di marmo, per la sua gloria e, come sempre, per una speculazione gigantesca.
Da quando sono arrivato a Milano negli anni Cinquanta, ci sono vissuto fra sventramenti e ricostruzioni, sempre. La metropolitana me la sono sorbita tutta, martelli pneumatici e tonfi dalla mattina alla sera, esaurimenti nervosi come li si chiamava, tamponcini negli orecchi.
Anche oggi sto fra due cantieri, uno davanti, l'altro di fianco. I muratori arrivano dalla bergamasca alle sei del mattino, alle sette scaricano già cementi e calcinacci per tubi di plastica, dal tetto al cortile, accompagnati da urli celtici, gli stessi che risuonano sulle piste di sci della val Camonica, bestemmie urlate e innocenti che il buon Dio fa finta di non sentire. Mai capito la ragione dei lavori, il progetto, come dicono, perché dopo aver abbattuto e rifatto l'intera casa, passato alla mola di sabbia tutte le facciate, rifatti i marciapiedi, dopo un mese o due ricominciano. Cambia solo il cartello del cantiere, puoi leggerci che a far fare i lavori non è più una finanziaria di Milano, ma una di Roma. Devono essere affari giganteschi, miliardari, ma non capisci perché li facciano visto che ogni volta li rifanno. L'unica risposta comprensibile è che si tratti di soldi della mafia da riciclare, cioè soldi mal guadagnati per affari sballati. Ma questa è un'altra specialità di Milano: fare miliardi buttando miliardi dalla finestra. Milano è una città strana: alle otto di sera chi vi abita sta rintanato in casa davanti alla televisione, per le strade passano solo gruppi di giovinastri che ogni tanto danno da matti, tirano fuori i coltelli come nelle ciucche proletarie del sabato sera e sventrano uno che ha osato guardar male la sua ragazza. L'ultimo è stato infilzato con un tergicristallo, dio sa come, dato che i tergicristallo sono fragili come le stecche di un ombrello. Uccidono e scappano, inutilmente, perché sono così gnocchi che la polizia li pesca subito in qualche birreria vicina.
La Milano che c'è è piena di automobili che non riescono ad avanzare per la ressa. Una delle prime inchieste che feci al 'Giorno' fu di provare l'attraversamento della città in auto da cui risultò che si faceva prima a piedi. Adesso la paralisi è regolare ogni sera. Ma tutti continuano a venirci in auto anche per comperare un panino, che costa quanto un pranzo vent'anni fa.
Vivo questa Milano come se i tre costruendi grattacieli storti del nuovo centro, visti mille volte nei dépliant e nei giornali, ci siano già e la gente guardandoli si chieda come stanno in piedi e perché mai l'architettura ultramoderna debba affidarsi a questi trucchi da baraccone, a questi trompe l'oeil, per distinguersi dal passato. E quei passanti disegnati sotto i grattacieli storti mi sembra camminino con la paura che cadano.
C'è sempre la Fiera campionaria in ricostruzione a Milano: in mezzo secolo di giornalismo sarò andato almeno cinque volte all'inaugurazione della nuova Fiera, l'ultima quest'anno, lontanissima, dalle parti dell'autostrada per Torino, spuntata da una sera a un mattino come una fungaia: all'architetto devono piacere i funghi, gli edifici bianchi sono a forma di funghi cresciuti in mezzo ai campi. Ci arrivano strade, autostrade e ferrovie e non capisci quali per andare e quali per tornare. C'è solo il Duomo a Milano che non si muove mai dalla piazza dove c'era la darsena in cui scaricavano le barche con il marmo di Scandoglia e anche dall'areo il Duomo è subito riconoscibile, piantato nel centro.
Le grandi città sono sempre state in costruzione perenne: il divo Augusto trovò Roma di mattoni e la rifece di marmo, per la sua gloria e, come sempre, per una speculazione gigantesca.
Da quando sono arrivato a Milano negli anni Cinquanta, ci sono vissuto fra sventramenti e ricostruzioni, sempre. La metropolitana me la sono sorbita tutta, martelli pneumatici e tonfi dalla mattina alla sera, esaurimenti nervosi come li si chiamava, tamponcini negli orecchi.
Anche oggi sto fra due cantieri, uno davanti, l'altro di fianco. I muratori arrivano dalla bergamasca alle sei del mattino, alle sette scaricano già cementi e calcinacci per tubi di plastica, dal tetto al cortile, accompagnati da urli celtici, gli stessi che risuonano sulle piste di sci della val Camonica, bestemmie urlate e innocenti che il buon Dio fa finta di non sentire. Mai capito la ragione dei lavori, il progetto, come dicono, perché dopo aver abbattuto e rifatto l'intera casa, passato alla mola di sabbia tutte le facciate, rifatti i marciapiedi, dopo un mese o due ricominciano. Cambia solo il cartello del cantiere, puoi leggerci che a far fare i lavori non è più una finanziaria di Milano, ma una di Roma. Devono essere affari giganteschi, miliardari, ma non capisci perché li facciano visto che ogni volta li rifanno. L'unica risposta comprensibile è che si tratti di soldi della mafia da riciclare, cioè soldi mal guadagnati per affari sballati. Ma questa è un'altra specialità di Milano: fare miliardi buttando miliardi dalla finestra. Milano è una città strana: alle otto di sera chi vi abita sta rintanato in casa davanti alla televisione, per le strade passano solo gruppi di giovinastri che ogni tanto danno da matti, tirano fuori i coltelli come nelle ciucche proletarie del sabato sera e sventrano uno che ha osato guardar male la sua ragazza. L'ultimo è stato infilzato con un tergicristallo, dio sa come, dato che i tergicristallo sono fragili come le stecche di un ombrello. Uccidono e scappano, inutilmente, perché sono così gnocchi che la polizia li pesca subito in qualche birreria vicina.
La Milano che c'è è piena di automobili che non riescono ad avanzare per la ressa. Una delle prime inchieste che feci al 'Giorno' fu di provare l'attraversamento della città in auto da cui risultò che si faceva prima a piedi. Adesso la paralisi è regolare ogni sera. Ma tutti continuano a venirci in auto anche per comperare un panino, che costa quanto un pranzo vent'anni fa.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …