Un colloquio con Isabel Allende su Zorro

27 Maggio 2005
Un giorno di agosto del 2003, un gruppo di sconosciuti bussò alla porta della sua casa nell’enclave esclusiva di Santa Rafael, che sovrasta la Baia di San Francisco. ‟Zorro ci appartiene”, annunciarono gli sconosciuti. ‟Sì? E allora?”, rispose lei. Gli sconosciuti erano guidati da John Gertz. Nel 1920 il padre di Gertz aveva acquistato i diritti del personaggio di Zorro dall’autore del romanzetto originale, e poi, con Disney, aveva creato le molteplici incarnazioni dell’uomo mascherato - gli episodi televisivi, i fumetti, i film - prima che Gertz Junior ricomprasse a sua volta i diritti. Gertz notò che Zorro, mentre aveva fatto la sua comparsa in film, sceneggiati e fumetti, non era ancora entrato nel mondo della letteratura seria. Così cominciò a cercare uno scrittore a cui commissionare l’impresa; uno scrittore che, come Zorro, conoscesse bene la California e pensasse in spagnolo; che avesse esperienza di ricerche storiche e desse una sensibilità latina al mito messicano americano del difensore dei deboli. Fu così che bussò alla porta di Isabel Allende.
‟Gli dissi: ‘Di che cosa sta parlando? Io sono una autrice seria’” , spiega la scrittrice, seduta nel soggiorno di casa sua, provvisto di una finestra panoramica con sfondo di nubi che attraversano la baia. Invece di accettare quella risposta negativa, i visitatori lasciarono una scatola piena di cimeli di Zorro, nastri di vecchi film, fumetti, registrazioni di sceneggiati televisivi. ‟E così mi innamorai di nuovo di Zorro”, spiega la Allende, ‟perché ne ero già innamorata da bambina. Zorro è il padre di Batman e Superman, è il padre di tutti gli eroi d’azione con una doppia identità. Molti di loro, però, hanno dei poteri magici, mentre Zorro ha solo la sua abilità”. La Allende preferisce non considerare il suo lavoro come una commissione. ‟È stata una proposta. Mi hanno detto: noi abbiamo il personaggio e lei ha la capacità di scrivere il libro. È interessata? Ho risposto: facciamo metà per ciascuno. E ci siamo messi d’accordo”.
La Allende in precedenza aveva esitato a scrivere su commissione. Non era stata convinta neppure dalla prospettiva di scrivere la storia di suo zio, Salvador Allende, l’ex presidente del Cile assassinato durante il colpo di Stato del 1973. ‟Non riuscivo a essere oggettiva”, racconta. ‟Non pensavo di poter scrivere un romanzo su di lui, avrebbe dovuto essere una biografia, e non sono capace di scrivere biografie. Non sono la persona giusta. Come giornalista non valgo niente, perché non riesco a fermarmi alla semplice verità, devo abbellirla”.
Pablo Neruda lo ribadì ancora più chiaramente: ‟Sei probabilmente la peggior giornalista del Paese, sei incapace di essere oggettiva, ti metti sempre al centro di tutto. Sospetto che tu dica un sacco di bugie, e quando non ci sono notizie, le inventi. Non sarebbe meglio che provassi a scrivere romanzi? In letteratura questi difetti sono virtù”. La Allende seguì il consiglio del poeta. Nel 1974 lasciò il nativo Cile con la famiglia e andò in Venezuela, dove, come dice la scrittrice, le si aprirono gli occhi. ‟Il Venezuela è un luogo selvaggio. Verde, generoso, molto diverso dal Cile. È un Paese tropicale, e ha un’energia che noi in Cile non abbiamo. Il Cile è inibito, represso. In Venezuela ho trovato una voce che non avrei avuto se fossi rimasta in Cile”. Una lettera scritta al nonno sofferente divenne il suo primo romanzo, La casa degli spiriti e ne fece una delle voci significative nell’esclusivo pantheon maschile della narrativa latinoamericana. Fu, forse inevitabilmente , etichettata come un’esponente del ‟Realismo magico”, e il suo nome invariabilmente fu accostato a quello di Gabriel García Márquez. Con La figlia della fortuna e Ritratto in seppia, il primo romanzo divenne una trilogia. Gli altri romanzi, tra cui Eva Luna e D’amore e d’ombra si fecero notare per lo stesso intreccio di storie personali e pubbliche che ha contrassegnato il suo debutto. E perché sono stati bestseller. Con piacere la Allende scoprì che scrivere di Zorro le si confaceva. ‟È stata una scoperta totalmente inattesa”, dice. ‟Mi sono divertita tanto a scrivere questo libro. Non è stato per nulla stressante. Il mio agente era inorridito. Tutti lo erano. Perché facevo una cosa del genere? Per la stessa ragione per cui avrei indossato la maschera e il costume di Zorro e preso lezioni di scherma”.
Il suo racconto degli inizi di Zorro, ragazzino di sangue misto in una California di missionari e indiani, è una storia che si legge d’un fiato, romanzesca e passionale, di improbabili duelli, ancor più improbabili avventure e vili nemici, sullo sfondo delle grandi correnti settecentesche della storia europea e delle ricchezze emergenti del Nuovo mondo. La storia, come la racconta lei, è sempre un gioco indiavolato. ‟A volte vengo intervistata su Zorro con un’intensità, una serietà, allora dico: ma stiamo par lando di Zorro, non di Che Guevara. Calmatevi”. Il compito della Allende era inventare la storia di Zorro, e ha impiegato le tecniche che usa per le memorie più intime. C’è pure del magico, anche se a menzionare il Realismo magico si viene rimproverati. ‟Il Realismo magico non è come il sale, che si mette dovunque”, sostiene con una punta di freddezza sotto l’affascinante cortesia. ‟Ho scritto più di quindici libri e solo in alcuni ci sono elementi di Realismo magico. Ma, chissà perché, gli scrittori latinoamericani che l’hanno usato finiscono per essere catalogati con questa etichetta. In realtà Realismo magico è semplicemente accettare che il mondo è un luogo molto misterioso e che non conosciamo tutte le risposte”. Come Zorro, la Allende ha condotto una vita nomade. E come lui, è un’outsider. ‟Ho viaggiato molto, sono figlia di diplomatici, sono un’esiliata politica, un’immigrata. Così penso di non avere più radici. Le ho nei libri, nella lingua, ma non in un luogo. Penso di essere un buon esempio di ciò che è la California. È immigrazione e diversità. E io sono molto fortunata perché sono in questo Paese legalmente e non ho padroni, non devo pulire gabinetti. È una nazione dentro la nazione. È come una schiavitù con un nome migliore”. Le è capitato di essere discriminata come le classi più povere dei latinoamericani, derisoriamente chiamati tutti messicani, senza badare alle vere origini? ‟Quando cammino per strada o compro qualcosa in un grande magazzino, sono una messica na”, afferma. ‟Chi penserebbe che sono cilena? Naturalmente quando guido la Lexus è diverso. Ma quando scendo dalla macchina e sono per strada, sono semplicemente una delle tante donne latinoamericane”.
La Allende è una scrittrice piena di superstizioni e con un ferreo metodo di lavoro. Comincia sempre un nuovo libro l’8 gennaio, il giorno in cui iniziò La casa degli spiriti . Lavora per molte ore da sola nel suo ufficio, una dependance vicina alla piscina nel giardino. La stanza principale dell’ufficio è dominata dalla sua ordinata scrivania, con le carte delle sue ricerche ben impilate sopra. A fianco c’è la camera della preghiera, con cuscini sul pavimento. In posizione preminente, sulla scrivania, c’è una fotografia della figlia Paula, a 27 anni. Due anni più tardi, nel 1992, sarebbe morta di porfiria, dopo un anno di coma. Il suo povero genero, dice la Allende, si è poi risposato con una donna nata lo stesso giorno della figlia. Quando Paula e il fratello Nicolas erano grandi, Allende si è separata dal loro padre e dopo poche settimane ha incontrato il suo attuale marito, un avvocato di San Francisco che si chiama Willie Gordon. Ha scritto un libro su sua figlia, sia per raccontarne la vita che per sanare il dolore della sua perdita, ma la ferita rimane. ‟Non si smette mai di sperare”, dice. ‟Non riuscivo a staccarmi da lei, ma la verità è che il cervello era morto. La dovevamo nutrire attraverso un tubo. I dottori dicevano che non si soffre, ma come fanno a saperlo? A un certo punto i dottori dissero che dovevamo togliere il tubo, ma non l’ho potuto fare, perché le madri sono nutrici”. Due altre fotografie occupano la scrivania, i ritratti dei nonni, i soggetti della Casa degli spiriti. ‟Sono veramente cresciuta in una casa di spiriti - dice - gli spiriti che mia nonna pensava di evocare. Chissà se venivano. Ma non importa. Se La casa degli spiriti non avesse avuto successo, probabilmente oggi non sarei una scrittrice. Starei ancora lavorando per cercare di mantenere la famiglia, che è quel che ho fatto per tutta la vita. Ma il successo del libro mi ha permesso di scriverne un altro e poi, con il terzo, ho potuto lasciare il lavoro e diventare scrittrice”. Essere una autrice di successo può essere strano, sostiene. ‟Le cose si sovrappongono. Ora sto promovendo Zorro, ma anche scrivendo un altro romanzo e rivedendo la traduzione di un altro ancora, e inoltre, dato che i miei libri sono tradotti in più di 27 lingue, c’è sempre un vecchio libro che viene pubblicato per la prima volta in posti come la Turchia. Così ci sono giornalisti che vengono a intervistarmi per Eva Luna , che ho scritto più di venti anni fa. Allora capisco quanto mi sono ripetuta. I personaggi hanno nomi diversi, ma sono sempre gli stessi”. Ritorna alla famiglia. ‟Mia nipote una volta mi ha detto che ho una grande immaginazione. Le ho chiesto a mia volta: che cos’è una grande immaginazione? Lei ha risposto: ti ricordi di cose che non sono mai successe. E penso che questo descriva la mia vita”.

Traduzione di Maria Sepa

Zorro di Isabel Allende

Figlio del latifondista spagnolo Alejandro de la Vega e di Toypurnia, un'india che prima di innamorarsi del marito si era battuta per i diritti del suo popolo, Diego eredita dal padre il senso dell'onore e dalla madre la volontà di difendere gli oppressi. Legato da una fraterna e indissolubile amic…