Marina Forti: Rahmatullah, processo pubblico con osservatori italiani
15 Maggio 2007
Non è mai stata facile la vita dei giornalisti afghani: ma ‟la morte di Adjmal Nakshbandi è uno dei momenti più brutti”, dice Mir Haidar Mutahar, direttore del quotidiano Arman-e Millie e membro dell'Associazione dei giornalisti afghani. Ieri era a Roma, ospite della Federazione nazionale della stampa e dell'Associazione stampa romana, per partecipare a un confronto-intervista con alcuni giornalisti italiani: dove si parlava dei contraccolpi sui media afghani dell'uccisione di Adjmal, il giornalista sequestrato in Afghanistan insieme all'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. E della sorte di Ramatullah Hanefi, il manager di Emergency in Afghanistan, detenuto dai servizi segreti il 20 marzo poche ore dopo aver portato in salvo Mastrogiacomo (‟sequestrato”, puntualizza Emergency nella persona di Vauro: isolato da oltre un mese senza che un'accusa sia formalizzata).
Sul caso di Hanefi, Mir Haidar Mutahar auspica ‟un processo trasparente e pubblico”. Per questo, dice, ‟chiedo che vengano osservatori dall'Italia, per garantire la correttezza del processo”.
Di cosa è accusato Hanefi? Su questo terreno, il giornalista afghano va molto cauto. Nessuna accusa è stata formalizzata nei confronti dell'uomo di Emergency (che, si ricorderà, ha avuto il ruolo di mediatore nella trattativa per liberare Mastrogiacomo, Nakshbandi e il loro autista Seyed, il primo a essere ucciso dai rapitori). La Sicurezza nazionale (i servizi segreti afghani) sostiene che Hanefi ha favorito il sequestro e lavora in realtà con i Taleban: ‟Dicono di avere le prove, ma non sono tenuti a mostrarle e noi non le abbiamo mai viste. Forse non le diffondono perché chiamerebbero in causa altre persone, che magari si stanno già mettendo in salvo lasciando il paese”, suggerisce Mutahar. I servizi operano in base a regole segretissime, tanto che nessuno le conosce, incalza un collega italiano. Mutahar smorza: ‟Non mi risulta che nessuno sia mai stato arrestato dalla Sicurezza nazionale per le sue opinioni politiche. Loro si occupano solo del terrorismo”. Piuttosto, ‟la nostra critica è che non sappiamo che fine fa chi viene arrestato”.
Il direttore di Arman-e Millie spera che Emergency resti in Afghanistan: il suo giornale, spiega, ha pubblicato in prima pagina un appello a Emergency perché non abbandoni il paese, ‟ed è stato firmato da molti cittadini”. Aggiunge: ‟Emergency gode di grande prestigio tra gli afghani, e la nostra gente ha un grande bisogno di aiuto. La guerra continua, e dove non c'è guerra c'è il terrorismo”. Ma precisa: ‟Quello che chiedo a Emergency è di non farsi coinvolgere in vicende politiche”.
‟Voi pensate che lavorare in Afghanistan sia rischioso per i giornalisti stranieri. Ma è ancor più rischioso per noi”, fa notare Mutahar. ‟Dobbiamo coprire la guerra con i comunicati dei Taleban o quelli della Forza internazionale, o i breefing del nostro governo”. La libertà di stampa, in teoria, è garantita dalla legislazione afghana: ne testimonia l'esistenza di 300 pubblicazioni indipendenti, 6 tv private e una trentina di radio. ‟Ma i potenti sono arrivati a uccidere per ostacolare i media indipendenti. Non è un problema di leggi, ma di abuso di potere”. Come quando un ministro ha mandato le guardie a fare irrusione a una tv indipendente per impedire la messa in onda un certo resoconto... Pressioni fortissime, mentre infuriano le polemiche, che Mutahar evoca senza dilungarsi. Gli preme piuttosto tornare sulla vicenda di Hanefi: ‟Nel sequestro Mastrogiacomo due persone sono morte: i responsabili devono pagare. La società civile non accetterebbe che questo crimine restasse impunito”. Per questo, insiste, bisogna arrivare a un processo pubblico: ‟Solo quando avremo chiarito la posizione di Hanefi si chiuderà questa brutta vicenda”.
Sul caso di Hanefi, Mir Haidar Mutahar auspica ‟un processo trasparente e pubblico”. Per questo, dice, ‟chiedo che vengano osservatori dall'Italia, per garantire la correttezza del processo”.
Di cosa è accusato Hanefi? Su questo terreno, il giornalista afghano va molto cauto. Nessuna accusa è stata formalizzata nei confronti dell'uomo di Emergency (che, si ricorderà, ha avuto il ruolo di mediatore nella trattativa per liberare Mastrogiacomo, Nakshbandi e il loro autista Seyed, il primo a essere ucciso dai rapitori). La Sicurezza nazionale (i servizi segreti afghani) sostiene che Hanefi ha favorito il sequestro e lavora in realtà con i Taleban: ‟Dicono di avere le prove, ma non sono tenuti a mostrarle e noi non le abbiamo mai viste. Forse non le diffondono perché chiamerebbero in causa altre persone, che magari si stanno già mettendo in salvo lasciando il paese”, suggerisce Mutahar. I servizi operano in base a regole segretissime, tanto che nessuno le conosce, incalza un collega italiano. Mutahar smorza: ‟Non mi risulta che nessuno sia mai stato arrestato dalla Sicurezza nazionale per le sue opinioni politiche. Loro si occupano solo del terrorismo”. Piuttosto, ‟la nostra critica è che non sappiamo che fine fa chi viene arrestato”.
Il direttore di Arman-e Millie spera che Emergency resti in Afghanistan: il suo giornale, spiega, ha pubblicato in prima pagina un appello a Emergency perché non abbandoni il paese, ‟ed è stato firmato da molti cittadini”. Aggiunge: ‟Emergency gode di grande prestigio tra gli afghani, e la nostra gente ha un grande bisogno di aiuto. La guerra continua, e dove non c'è guerra c'è il terrorismo”. Ma precisa: ‟Quello che chiedo a Emergency è di non farsi coinvolgere in vicende politiche”.
‟Voi pensate che lavorare in Afghanistan sia rischioso per i giornalisti stranieri. Ma è ancor più rischioso per noi”, fa notare Mutahar. ‟Dobbiamo coprire la guerra con i comunicati dei Taleban o quelli della Forza internazionale, o i breefing del nostro governo”. La libertà di stampa, in teoria, è garantita dalla legislazione afghana: ne testimonia l'esistenza di 300 pubblicazioni indipendenti, 6 tv private e una trentina di radio. ‟Ma i potenti sono arrivati a uccidere per ostacolare i media indipendenti. Non è un problema di leggi, ma di abuso di potere”. Come quando un ministro ha mandato le guardie a fare irrusione a una tv indipendente per impedire la messa in onda un certo resoconto... Pressioni fortissime, mentre infuriano le polemiche, che Mutahar evoca senza dilungarsi. Gli preme piuttosto tornare sulla vicenda di Hanefi: ‟Nel sequestro Mastrogiacomo due persone sono morte: i responsabili devono pagare. La società civile non accetterebbe che questo crimine restasse impunito”. Per questo, insiste, bisogna arrivare a un processo pubblico: ‟Solo quando avremo chiarito la posizione di Hanefi si chiuderà questa brutta vicenda”.
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …