Gabriele Romagnoli: Delitto di Perugia. Orrore in famiglia

04 Giugno 2007
Family (black) day. Se le conclusioni degli inquirenti sul delitto di Perugia risultassero confermate, questo sarebbe il quadro: un marito violento maltratta a lungo due bambini e la moglie, arrivando a ucciderla mentre è all’ottavo mese di gravidanza, poi la piange, insieme con un suocero che ne difende l’innocenza e le virtù, fino all’alba del giorno del funerale, a cui si fa rappresentare, con rimpianto, dal padre. Alle esequie accorrono a centinaia gli stessi che avevano invocato ‟squadracce contro gli immigrati” e ora chiedono la pena di morte per quell’uomo delle cui violenze erano, poco credibilmente, ignari. ‟Perfino Dio tace”, proclama il sacerdote celebrante. A noi tocca invece dire alcune cose. La prima è che esiste una via di mezzo tra la concezione del regista tedesco Fassbinder per cui ‟la famiglia è la radice di ogni male” e quella, proclamata in cartelli visti a Roma pochi giorni fa, per cui è ‟la più sacra delle istituzioni”. Sia concesso il relativismo: c’è famiglia e famiglia. Quel che non varia è purtroppo il modo in cui questo nucleo viene vissuto e osservato: come un altro genere di ‟famiglia”, all’insegna dell’omertà. Che il signor Spaccino sia un omicida non è ancora provato, che fosse un violento appare certo. Come potevano non essersene accorti i genitori della donna e nonni dei bambini su cui infieriva? E se lo sapevano, perché hanno tollerato? Per il buon nome? Il nome della famiglia? Quello che si incide sulle targhette d’ottone dei campanelli che poi finiscono ripresi da una troupe del tg? Quello che viene pronunciato nei discorsi sul pianerottolo e, si esige, a voce alta? Quante vittime vale il buon nome? Quanti lividi sulla pelle altrui si può fingere di non vedere per proteggere il nome che è anche proprio? Non è, pure questo, un comportamento criminale? Se qualcuno preferisce l’onore di un pugno di lettere all’incolumità delle persone che ama, semplicemente non le ama. Quel che ama è un bene neppure tanto immateriale: la reputazione. La famiglia può essere piacevole, ma anche guastarsi, talora in modo irreparabile. Chi continuerebbe a guidare una vettura irreparabile per il buon nome della casa automobilistica che l’ha costruita? Eppure proprio questo sembra accadere in troppi casi e forse anche a Perugia. Si stringono tutti su un veicolo senza freni lanciato in discesa: il marito al volante, la moglie nel sedile della morte, bambini e nonni dietro, magari pregando che Dio gliela mandi buona. Ma così, talora, non è. Poi c’è la folla, che assiste alla discesa pericolosa, la folla curiosa di tutto, a cui la televisione non ha ancora fornito il definitivo succedaneo degli affari altrui, la folla che vede l’auto guasta scendere senza controllo, ma non interviene, non avvisa, non cerca soccorsi. Perché quella discesa è un affare di famiglia, qualcosa in cui non bisogna interferire. Il diritto internazionale non basta a proteggere la sovranità dei popoli, ma un’ipocrita legge non scritta è sufficiente a non proteggere l’incolumità di una donna e due, poi tre, bambini. Meglio non vedere i guasti o, quando la sciagura è accaduta, pensare al sabotaggio di qualche mano straniera (e anche lì ci vorrebbe una via di mezzo tra ‟l’immigrato è la radice di ogni male” e ‟l’immigrato è un puro agnello del sacrificio”). Alla fine, ma proprio e purtroppo alla fine, c’è nella vicenda della defunta Barbara Cicioni un elemento simbolico nella sua claustrofobia: è la chiesa di Morcella dove sono stati celebrati il suo battesimo, matrimonio e funerale. Tutto lì: la nascita, la morte e il rito di passaggio che aveva chiamato amore. Tutta la sua esistenza è stata avvolta nello stesso guscio e in quel guscio è stata soffocata mentre non tanto Dio, quanto gli uomini, stavano in silenzio.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …